L'estate militante
Così il Pd può sfuggire al vuoto politico che s’è spalancato da solo
L’oscillazione tra un campo largo concepito nel 2019 a rimorchio del «punto di riferimento fortissimo dei progressisti» e una improvvisa vocazione minoritaria con la chiusura preventiva a ogni intesa nel settembre del 2022 ha spalancato gli abissi del vuoto politico
Editoriali - di Michele Prospero
Per rendere produttiva “l’estate militante” in vista di un’alternativa, il Pd farebbe bene a rinsaldare anche le basi di una revisione strategica. L’oscillazione tra un “campo largo”, concepito nel 2019 a rimorchio del “punto di riferimento fortissimo dei progressisti”, e una improvvisa vocazione minoritaria, con la chiusura preventiva ad ogni intesa nel settembre del 2022, ha spalancato gli abissi di un vero vuoto politico. Una convergenza ampia tra forze affini, comunque la si voglia chiamare, è una condizione obbligata per competere, viste le consuetudini adottate dal sistema politico italiano nel corso della seconda Repubblica.
In tutti i paesi europei (con il proporzionale o il maggioritario), la coalizione non esiste come soggetto politico che in quanto tale si presenta già all’appuntamento elettorale, con liste tra loro collegate o simboli unitari nei collegi (momentanei scostamenti sono riscontrati solo in Francia, dove però vige il doppio turno). In Italia l’invenzione principale di Berlusconi è stata quella di impostare una battaglia bipolare in cui protagonisti diventavano le ampie coalizioni e non più i partiti che da soli affrontavano il voto. Dopo il 1994, ha vinto le elezioni solo l’aggregazione a maglie più larghe e all’occasione capace di approfi ttare della erosione dello schieramento avverso. Il ricambio del 1996 derivò da un’accorta regia di D’Alema, che con il “ribaltone” sganciò la Lega dal comando berlusconiano e la indusse a presentarsi in autonomia nei collegi.
Prima della cavalcata grillina, nel 2013 e poi nel 2018, che stracciò il bipolarismo durato vent’anni, nessun partito aveva gareggiato da solo (se si eccettuano le sfide lanciate contro i vincoli del quadro bipolare da Bossi nel 1996, da Rifondazione nel 2001 e da Casini nel 2008). E quando un attore ha compiuto di proposito la scelta della competizione in solitaria (la cosiddetta “vocazione maggioritaria” di Veltroni o la volontà auto-punitiva di Letta), ha sempre imboccato la strada che conduce diritto alla sconfitta. Il difetto del “campo largo” di Zingaretti e Bettini non è stato pertanto quello di spingersi sino a progettare una coalizione molto accogliente di soggetti plurali. Questa è anzi la sola scelta realistica per concorrere alla pari entro il peculiare assetto competitivo adottato dai fronti contrapposti nella stagione del maggioritario all’italiana.
Il tarlo che inficiava quella strategia (che, a sistema elettorale invariato, non ha valide alternative) è stato quello della meccanicità di uno schema che, pronunciando la formula magica del “campo progressista”, teneva in scarsa considerazione quello che Machiavelli chiamava il “riscontro” tra le azioni e i tempi. L’ostacolo fondamentale al “campo largo” si trovava non già nell’astratta esigenza di provare una ricetta aperta a più soci, ma nel fatto che le elezioni del 2018 avevano visto il netto successo del M5S, il quale nella sua ascesa clamorosa raccoglieva anche i frutti dell’onda referendaria anti-Pd sprigionata nel 2016. Il “contratto” gialloverde per il governo fu, per certi versi, la prosecuzione della battaglia comune contro la revisione costituzionale propugnata da Renzi alla ricerca di una personale investitura carismatica. Le forze più eterogenee trovarono nel referendum costituzionale trasformato in plebiscito l’occasione per invertire il ciclo politico a dominanza renziana suggellato dal 40% agguantato alle consultazioni europee del 2014.
Ad inizio legislatura, il Pd ferito scartò ogni dialogo con il M5S, il vincitore che aveva preso i voti (trasversali) come antagonista principale del Nazareno. Oltre all’ipotesi problematica di partecipare ad un esecutivo con il nemico accettando il profi lo di partner minore, venne ricusata anche la meno dirompente scappatoia di consentire comunque il varo di un governo di minoranza. Questa immobilità tattica di un partito che era sceso al minimo storico spianò il cammino del Movimento grillino, in nome non solo della necessità, verso la destra (per via di certe affi nità, anche Meloni fu tentata dall’idea di entrare nel Conte I). Il distacco del M5S dalla maggioranza gialloverde, dove era precipitato in una posizione subalterna alla propaganda salviniana e alle battaglie navali che regalarono al Capitano il 34% alle europee del 2019, costituiva un fatto politico rilevante.
Di fronte alla richiesta provocatoria di voto anticipato per ottenere “i pieni poteri” lanciata da una spiaggia di Milano Marittima, la convergenza del Pd con le altre forze democrati che rappresentava una tappa forzata per sterilizzare gli effetti di un’autentica provocazione costituzionale. Una operazione di Palazzo, che disarcionava l’esecutivo sovranista (il cosiddetto “governo del contratto”) per risolvere la crisi istituzionale conseguente al folle grido del Papeete, inaugurava un governo che fu denominato “di svolta” (e però con lo stesso presidente del Consiglio). Una tale manovra (in cui peraltro fu centrale l’attivismo di Renzi, desideroso di guadagnare tempo e indebolire il nuovo segretario del Pd dinanzi ai costi di una convergenza che ne avrebbe allarmato l’anima liberaldemocratica) confondeva due aspetti tra loro distinti: insieme alla legittima difesa per liquidare con i riti del trasformismo il sovversivismo di Salvini, si sottolineava la contestuale inaugurazione di una cesura sostanziale.
Il passaggio trasformistico (nuovo governo con la componente più corposa della vecchia maggioranza) era obbligatorio dinanzi all’impasse dell’agosto 2019, ma i vizi congeniti di ogni logica opportunistica (un’iniziativa tutta assembleare) non autorizzavano a proclamare l’avvento di una epocale sterzata qualitativa, con un’alleanza che amministrava il potere senza la previsione ravvicinata di una unzione elettorale legittimante. La gestione dell’emergenza anti-salviniana veniva insomma caricata di “un di più” rispetto a quanto risultasse dalla semplice meccanica dell’aureo gioco parlamentare: una netta discontinuità politico-programmatica, priva però di quell’esplicito mandato popolare utile a ratificare l’intesa tra il partito-sistema (il Pd) e il non-partito antisistema (il M5S).
Il precedente del 1995 vedeva un tipico momento trasformistico (nascita del governo Dini grazie alla Lega che aveva abbandonato la maggioranza berlusconiana), con la consapevolezza però dei limiti tecnico-politici di ogni camaleontismo parlamentare, e quindi dell’ineludibile e rapida sanatoria elettorale da prenotare: D’Alema non nominò Dini “capo del blocco della sinistra”, né stipulò con la Lega un patto per le elezioni. Il testacoda del 2019, quando i “gialli” passarono al governo con i “rossi” dopo essere stati alleati dei “verdi”, evidenziava una disinvoltura estrema nel mutamento delle collocazioni parlamentari che strapazzava le compatibilità pur sempre richieste da certe prassi spregiudicate. Nato nelle secche del trasformismo, il Conte II naufragava a causa del lavorio di logoramento condotto ai fianchi dell’esecutivo dalle anime centriste, che in pieno Covid non temevano più la minaccia di un eventuale voto anticipato.
Queste sensibilità premevano per una soluzione tecnica, considerata imprescindibile per impedire il consolidamento dell’asse Pd5Stelle e anche per accogliere l’eco delle cancellerie europee che reclamavano una sorveglianza più attenta sui fondi a disposizione dell’Italia per le grandi politiche di spesa post-pandemica. Dopo aver perseguito per tutto il 2021 la linea del “campo largo” (“Elly, Giuseppe ed io dobbiamo prenderci per mano”), spingendosi finanche ad auspicare un approdo grillino nel gruppo europeo dei Socialisti e Democratici nonostante il precedente accasamento al fianco della destra euroscettica (gli indipendentisti di Farage, “Alternative für Deutschland” e i “Democratici Svedesi”), nel 2022 Letta mutava paradigma facendo dell’“agenda Draghi” la bibbia del riformismo.
Al ripiegamento populistico del M5S, che si staccava dal governo tecnico per sopravvivere come formazione dalle solide radici sociali, faceva riscontro un arroccamento tecnocratico del Pd, che rimaneva l’unico grande partito a presidio della esperienza draghiana. Dimenticando che tali sganciamenti sono pugnalate sgradevoli ma prevedibili (lo stesso fece Berlusconi verso la fine del 2012 con il governo Monti), e quindi gestibili, Letta assumeva il voto antigovernativo dei grillini come un alto tradimento, da sanzionare attraverso il pronunciamento del popolo sovrano.
Il fallimento strategico del PD lettiano, franato nel suo ruolo sempre delicato di partito-pivot, che esercita una funzione coalizionale e sa gestire sia la fase dell’attacco sia il momento della ritirata, richiede una rimodulazione della offerta politica. Il “riscontro” machiavelliano, che prima mancava condannando all’astrattezza l’ipotesi solo in teoria valida del “campo largo”, è ora disponibile per le mutate condizioni soggettive (evoluzione in senso “progressista” del M5S, affrancato dall’ipoteca aziendale della Casaleggio e dall’opprimente comando di ultima istanza di Grillo) e sistemiche (area governativa a trazione egemonica della destra radicale meloniana).
La possibilità di proporre un fronte alternativo poggia non sulla ossessione di firmare subito le clausole di un’alleanza (in vista delle europee, che si svolgono con il proporzionale, ognuno trae vantaggio nell’esaltare la propria specifica identità), ma sulla capacità del Pd di determinare la polarizzazione grazie all’efficacia divisiva della sua pratica di opposizione politica e sociale. Se il tracciato dei differenti schieramenti diventa percepibile (sul terreno fiscale, del salario minimo, dell’agenda economica e istituzionale), anche la resistenza dell’area di centro è destinata a sfumare. Il precedente di Casini, che ruppe con il centrodestra per cercare fortuna marciando in solitudine, si spiega con il carattere non conteso di quelle elezioni, la cui sorte era già scontata a seguito della decisione di Veltroni di andare incontro all’insuccesso incassando però la compensazione del “voto utile”.
Il centro occupa uno spazio elettorale autonomo consistente solo quando il sistema supera nella bonaccia del trasformismo la semplificazione delle preferenze garantita da una forte contrapposizione. Quando la contesa ha dei costi elevati, e le forze in campo sono frontalmente antitetiche sul piano degli interessi, delle culture e dei simboli, il “campo largo” smussa le ostilità pregiudiziali che in situazioni normali frenerebbero un’intesa tra centristi liberali e populisti “progressisti”. Su questa funzione di cerniera, capace di oltrepassare i veti reciproci dei contraenti potenziali, si misurerà la regia coalizionale che i rapporti di forza delegano al Nazareno. All’“estate militante” dovrà seguire una stagione riflettente che preveda la capacità di convivere con affondi e mediazioni, avanzate e fughe.