Il caso dell'ex calciatore
Intervista a Vincenzo Iaquinta: dal Mondiale vinto alla persecuzione giudiziaria del padre
«I nostri soldi sono di provenienza lecita. Mio padre non è un mafioso e io lotterò per la verità»
Giustizia - di Annalisa Costanzo
«Anche in questo caso, provata la fonte della provvista da parte di Vincenzo Iaquinta, il bene va allo stesso restituito, insieme alla restituzione al predetto della quota parte della somma vincolata a titolo di sequestro». Così il tribunale di Bologna, sezione specializzata nelle misure di prevenzione, nella giornata del 3 agosto 2023, ha rigettato la richiesta di confisca avanzata dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna relativamente ai beni di Giuseppe, Vincenzo ed Adele Iaquinta.
«Questa decisione – commenta Vincenzo Iaquinta – è stata una liberazione, perché il tribunale di Bologna, insieme ai miei avvocati, ha fatto un grandissimo lavoro. Sono soddisfatto, abbiamo fatto luce almeno sulla questione economica: abbiamo dimostrato che i soldi che entravano nella nostra famiglia erano tutti di provenienza lecita». Il tribunale delle Misure di Prevenzione ha sciolto la riserva in seguito all’udienza del 13 giugno 2023, ed ha conseguentemente disposto la revoca del sequestro e la restituzione dei beni alla famiglia Iaquinta.
La storia che vi raccontiamo (ma che ancora non è giunta a conclusione) è quella di uno degli eroi di Berlino, Vincenzo Iaquinta, il calciatore che nel 2006 contribuì (anche con un gol) a portare la nazionale italiana sul tetto del mondo, con la vittoria del campionato mondiale. Una storia di dolore e ingiustizia – «quanto fango gettato addosso», dice Iaquinta all’Unità -, che ha segnato e cambiato per sempre la vita fatta di allenamenti, fatica, calcio e famiglia dell’ormai ex calciatore. Giuseppe, il padre di Vincenzo, prima di essere coinvolto nell’operazione “Aemilia” – il più grande maxi-processo in Emilia Romagna contro la ‘ndrangheta -, era un noto imprenditore edile di Crotone che fin dalla gioventù, come tanti calabresi, aveva 16 anni quando insieme al fratello maggiore si è trasferito nel nord Italia alla ricerca di fortuna. Vincenzo, invece, giocava a calcio. Era l’idolo dei ragazzini. Il suo viso per anni ha campeggiato sugli album delle figurine.
Ha vestito, tra le altre, le casacche dell’Udinese prima e della Juventus dopo, siglando circa 90 gol nel campionato di serie A. Ha vestito anche la sognata maglia azzurra, quella della nazionale italiana, collezionando 40 presenze. Tanto il padre quanto lo stesso calciatore sono stati coinvolti nell’indagine del 2015: Vincenzo in appello è stato condannato ad un anno, con pena sospesa, per la mancata custodia di due pistole (regolarmente dichiarate) e 126 proiettili, ceduti al padre e la spiegazione è tanto semplice: «io ero sempre a Torino – spiega il calciatore- a lavorare, nel 2014 mia sorella mi chiese se poteva andare a vivere a casa mia dove io custodivo regolarmente le due pistole e mio padre in quell’occasione, a mia insaputa, ha preso le armi e le ha portate a casa sua. Un’ingenuità». Nulla di più.
Il padre, invece, è stato condannato in via definitiva a 13 anni: nonostante non abbia mai commesso un reato specifico, secondo l’accusa è comunque una figura di rilievo vicino alle cosche emiliane legate alla ‘ndrangheta di Cutro. Ad accusare Giuseppe Iaquinta ci sono delle intercettazioni, la partecipazione a diversi incontri conviviali, ma anche alcuni pentiti. Quella di giovedì del tribunale di Bologna è una sentenza che lascia l’ex campione del mondo soddisfatto e «contentissimo», ma «a metà», ripete come un mantra: «Il mio cuore ancora piange, perché mio padre è in carcere e quello non è un posto per lui. Mio padre non è un mafioso e io griderò la sua innocenza fino alla morte». Trattiene a stento le lacrime Vincenzo, che durante il calvario giudiziario che ha visto coinvolto lui e soprattutto il padre ha patito anche la grave perdita della madre.
Un dolore nel dolore per lui, ma «con questa sentenza – si fa forza – si apre qualche spiraglio, perché si inizia a vedere giuridicamente che mio padre con la ‘ndrangheta non c’entra proprio niente. Abbiamo dimostrato che tutti i soldi che giravano in famiglia sono soldi leciti, sono soldi che mio padre ha avuto dalle banche, che mio padre ha avuto da me. Io ho guadagnato giocando a calcio e quindi questo mi ha dato grande soddisfazione: avendo la possibilità economica, posso regalare un appartamento a mia mamma o non posso?», si chiede l’ex calciatore, perché tra le altre cose ha dovuto chiarire anche questo, ovvero di aver usato i soldi guadagnati con il suo lavoro di campione per regalare un appartamento ai genitori.
«La procura pensava – dice- che mia madre, non avendo reddito, non potesse permettersi un appartamento, invece il tribunale, con la nomina di un Ctu e con i nostri avvocati, ha fatto un grandissimo lavoro: hanno analizzato i conti dal 2004 in poi e abbiamo dimostrato che tutti i soldi erano leciti». Soddisfazione per la sentenza del tribunale delle misure di prevenzione l’hanno espressa anche gli avvocati della famiglia Iaquinta. «Si tratta di un provvedimento corretto ed equilibrato, che restituisce a Giuseppe Iaquinta la sua storia di imprenditore, sgombrando il campo da qualsiasi ipotesi di arricchimento illecito e con il quale il Tribunale di Bologna ha dimostrato una grande sensibilità per il rispetto delle garanzie difensive, non sempre comune nel procedimento di prevenzione», hanno commentato il professor Vincenzo Maiello e il professor Tommaso Guerini, che assistono Giuseppe Iaquinta.
Apprezzamento per il lavoro del tribunale è stato espresso anche dagli avvocati Tommaso Rotella, che assiste Vincenzo Iaquinta, e Roberto Ricco, che assiste Adele Iaquinta la sorella dell’ex bomber. Vincenzo, come ogni altro figlio che ne ha la possibilità, ha semplicemente aiutato i propri genitori e adesso è impegnato a gridare al mondo l’innocenza del padre: «Lui attualmente si trova a Sulmona, sono stato a trovarlo lo scorso martedì ed è stata veramente dura, era da tanto che non lo vedevo; ogni settimana facciamo la videochiamata, ma vederlo dal vivo è diverso, ci siamo messi a piangere. Ho portato con me anche i miei figli, che non vedeva da parecchio tempo. È un posto bruttissimo il carcere e io lotterò fino alla fine perché venga fuori la verità. Fatta chiarezza sulla faccenda economica, adesso devo dimostrare che mio padre è innocente al 100%».
Della ricerca della verità Vincenzo ha fatto una missione di vita, mettendo così da parte quelli che erano i suoi sogni, i suoi progetti per il futuro e soprattutto il suo lavoro. «Per mia scelta sono fermo lavorativamente perché questa faccenda mi ha un po’ bloccato. Quando ti ritrovi in questo vortice tra avvocati, udienze, non sei mentalmente sereno e tutte queste cose non mi hanno dato la possibilità di fare la cosa che mi piaceva nel mondo del calcio, ma per scelta mia comunque».
E dal giorno della sentenza di rigettato della richiesta di confisca «che sento quel peso sullo stomaco come se fosse un po’ più leggero. Sentirsi gettare del fango addosso di queste brutte cose di ‘ndrangheta che noi assolutamente non abbiamo mai fatto parte di questa cosa, soprattutto mio padre, e ti senti male. Ti senti male perché hai anche i figli, la gente pensa male di te e tu sai invece che tutto questo non è vero e ti senti sempre una cosa sullo stomaco, è impressionante, non lo so descriverla». Gli obiettivi di Vincenzo Iaquinta, l’eroe di Berlino, adesso sono concentrati su Strasburgo, dove i suoi avvocati hanno fatto ricorso per vedere riconosciuta l’innocenza di suo padre che da anni è rinchiuso in una cella. E, intanto, il processo “Aemilia” in questi anni ha “brillato” anche per la presenza del cognome Iaquinta.