Il dibattito
Come si vestono i deputati: il dress code della Camera tra scarpe da jogging e vestiti leopardati
L’epica battaglia alla Camera sul dress code. Vietate le scarpe da ginnastica ma non gli abiti leopardati? E che eleganza è? La destra tiene il punto. Eppure è fi glia di manipoli di Benito, che vestivano casual...
Editoriali - di Fulvio Abbate
Che sappia, per entrare alla Camera e al Senato, almeno un tempo, era necessaria una decorosa ordinaria banale giacca accompagnata dalla non meno formale cravatta. La volta in cui ne ero sprovvisto, così ricordo, la ricevetti in prestito da una gentile commessa gallonata che ne teneva riposte alcune in un armadietto apposito. Peccato fosse taglia 52, ne giunse un lieve supplizio visto che porto la 54.
Per dire che, ben oltre ogni considerazione sul cosiddetto dress-code, non mi sembra di aver mai visto parlamentari in bermuda, felpa o addirittura canottiera (magari a rete alla Rainer Werner Fassbinder) semmai puntualmente, militarmente, catastalmente “Davide Cenci a Campo Marzio”, abbigliamento ministeriale per definizione, notarile, forse anche, pensandoci bene, da tributarista, agente immobiliare.
La questione nel “decoro” nelle aule del Parlamento sembrerà ad alcuni oziosa, consentirà tuttavia all’insopprimibile “vox populi” qualunquista di pronunciare le sue persistenti, inaffondabili sentenze: “… ma sì, fossero questi i veri problemi, pensiamo semmai al magna-magna…” parole altrettanto munite dal borsello ascellare delle riserve morali nei confronti dei signori e delle signore “deputati/e”, così senza neppure bisogno di chiamare in causa lo sdegno per le recenti imbarazzanti dichiarazioni di Piero Fassino, il cedolino della busta paga sventolato come saio pauperistico…
Chissà perché, su questa problematica scia, torna in mente un quadro del talentuosissimo pittore fascistone Mario Sironi che ritrovandosi, a regime ormai deposto, a raffigurare sulla tela proprio i parlamentari, volle mostrarli sordidi, con tuniche da antichi patrizi dell’impero romano al crepuscolo, tra furtivo e canagliesco. Questo per dire che neppure il panneggio fa il monaco, il sottosegretario, il ministro.
Ho perfino provato stupore ascoltando l’amico Paolo Cirino Pomicino, uomo di mondo navigato, intervenuto nella querelle citando i Radicali, dire appunto che questi ultimi, sebbene amanti dell’informalità (ricordiamo Marco Pannella, maglione nero a collo alto e ciondolo antimilitarista) a dispetto d’ogni eleganza infranta e vilipesa, potevano vantare comunque il bene delle idee, cominciando dall’avere consentito l’arrivo della pornodiva Cicciolina negli scranni di Montecitorio.
La discussione sul dress-code in verità impone un più ampio trattamento sui concetti, anzi, le categorie estetico-formali di Gusto e Stile, in questo senso sarà altrettanto opportuno citare come esemplari i tailleur ghepardati della ministra del Turismo Daniela Santanchè, questi ultimi infatti, sebbene frutto di libero acquisto in titolatissime griffate boutique, meriterebbero altrettante note a margine al pari dello spettro dei ventilati bermuda e scarpe da ginnastica, pronti ad apparire nell’Emiciclo. Fa un po’ specie che giunga proprio da Fratelli d’Italia un ordine del giorno sul “generale decoro nel vestiario per presentarsi in Aula”, si tratta infatti degli eredi politico-morali di colui che il 16 novembre del 1922, proprio a Montecitorio, così minacciava: “Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli”.
Al netto di possibili, ventilate t-shirt e sneakers, si può infatti affermare che l’abbigliamento delle camicie nere già marciate su Roma fosse tecnicamente improntato al casual del tempo, sebbene militare, a una funzione “tattica”, laddove questo termine nel frasario da fureria e casermaggio designa sia il coltello sia le stesse pratiche mutande. Ciò avviene nel cuore politico della nazione italiana, Paese che ancora nei primi anni Settanta riteneva che indossare i jeans (ma allora erano ancora detti blu-jeans) nelle aule scolastiche fosse indecoroso, inopportuno, punibile in condotta. L’abito fa dunque, oltre ai monaci, anche deputati e senatori.
Se solo fosse ancora tra noi Silvio Berlusconi, sempre incastonato nei suoi (non meno tattici) blazer “Caraceni”, certamente applaudirebbe il disappunto per l’incombente sciatteria, vera o presunta, infine concessa, lui che dai suoi conduttori televisivi pretendeva giacca sempre abbottonata e perfino niente barba; potrebbe molto narrare in proposito il bravo e giustamente disinvolto e sincopato Gerardo Greco durante la sua breve permanenza al Tg4. Chissà però se questa storia del dress-code non serva, propedeuticamente, alle attuali forze di governo e di gusto ad affermare che il modello unico d’eleganza cui ispirarsi, insieme alla sua adeguata prossemica, debba guardare al compagno di Giorgia Meloni, il giornalista Andrea Giambruno, postura del Palazzo politico primavera-estate, così in attesa dell’autunno-inverno che tuttavia già si preannuncia.