Il caso dell'ex presidente Usa

“Ecco quale è il progetto di Donald Trump”, parla Massimo Teodori

«Vuole aumentare i poteri personali e ridurre quelli federali, dare un’ampia autonomia agli Stati su welfare, ambiente, povertà, sanità, istruzione e diritti civili. La sua vaga idea sarebbe riportare il Paese a uno stadio pre-novecentesco»

Esteri - di Umberto De Giovannangeli

3 Agosto 2023 alle 12:00

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“Ecco quale è il progetto di Donald Trump”, parla Massimo Teodori

Donald Trump, tra il carcere e la Casa Bianca. L’Unità ne discute con Massimo Teodori, professore di Storia e Istituzioni degli Stati Uniti.

Donald Trump incriminato per l’assalto al Congresso. Quattro i capi d’accusa, tra cui “frode agli Stati Uniti”. Gli altri tre reati contestati riguardano, al punto due e tre, il tentativo di interrompere una procedura ufficiale; al punto quarto, di aver preso parte a un piano per negare al popolo i diritti civili fissati dalla legge o dalla Costituzione. Una sua lettura, professor Teodori.
Non c’è dubbio che quello americano sia un sistema giudiziario che funziona molto bene. In questo caso è stato accusato il giudice che ha promosso questi procedimenti di farne un uso politico. A me non pare, anche perché questi procedimenti sono in parte promossi dalla giustizia locale, quella di Mar-a-Lago, in parte dalla giustizia federale. Si tratta di due sistemi completamente diversi. D’altro canto, non c’è dubbio che i reati per i quali sono state promosse queste azioni siano davanti agli occhi di tutti. L’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, la sedizione della Casa Bianca, rappresentano un fatto gravissimo e unico nella storia americana. Altrettanto grave è la sottrazione di documenti da parte della Casa Bianca. A me pare che Trump si sia sempre comportato come se ritenesse, con la carica di presidente e anche di presidente scaduto, di poter fare qualsiasi cosa al di là della legge.

Il tycoon si è difeso andando all’attacco e ha dichiarato, cito testualmente: “L’illegalità di queste persecuzioni e dei suoi sostenitori è una reminiscenza della Germania nazista degli anni ’30 e dell’ex Unione Sovietica, e di altri regimi dittatoriali e autoritari”.
Lasciamo stare questo tipo di accuse, cose che sono un po’ macchiettistiche. Certamente Trump è stato ed è il primo presidente che fa un uso del sistema istituzionale e politico che travalica un tradizionale rispetto per i limiti, i pesi e contrappesi istituzionali che sono le fondamenta di uno stato di diritto. Tanto è vero che c’è un dibattito in corso negli Stati Uniti, secondo alcuni se Trump dovesse essere nuovamente eletto questo potrebbe portare anche ad una revisione dei principi costituzionali in senso più autoritario. Dietro lo stile dozzinale dell’ex-presidente si intravede il “Project 2025” del centro studi conservatore Heritage Foundation. Trump vuole aumentare i poteri personali e ridurre quelli federali, dare un’ampia autonomia agli Stati (come i confederati nella guerra civile) rendendo marginale il ruolo federale in materie in cui durante il secolo scorso vi sono state importanti evoluzioni: welfare, ambiente, povertà, sanità, monopoli, istruzione e diritti civili. In sostanza la sua vaga idea, che neppure lui conosce con chiarezza, sarebbe di riportare il Paese a uno stadio pre-novecentesco.

Trump rischia 55 anni di carcere ma lui rilancia e afferma: “Io vincerò nel 2024”, e i sondaggi non lo smentiscono, anzi.
Oggi i sondaggi non ci dicono quello che potrebbe essere effettivamente un confronto tra Trump e Biden…

Perché, professor Teodori?
Trump ha un forte consenso di una minoranza importante e decisiva all’interno del Partito repubblicano. Ma altra cosa è il confronto con l’intero elettorato. Sulle elezioni primarie si possono azzardare previsioni, nel senso che Trump è nettamente in vantaggio per la nomination sui suoi concorrenti interni del Partito Repubblicano. Ma in un confronto con Biden, nessuno può dire che cosa accadrà, perché in quel caso dipende da quanta parte di quell’elettorato intermedio andrà a votare. Questo elettorato “centrista”, per usare una brutta espressione italiana, cioè intendo non nettamente schierato, è quello che alla fine ha fatto sempre la differenza negli Stati Uniti. E dubito che possa fare la differenza a favore di Trump.

Un effetto dentro il partito Repubblicano, la ricandidatura di Trump l’ha già provocato, spostando sempre più a destra il partito. Il suo sfidante più accreditato, il governatore della Florida Ron DeSantis, addirittura ha affermato, anche qui cito testualmente, “la schiavitù ebbe anche lati positivi”.
Il partito Repubblicano dall’elezione di Trump è cambiato profondamente. L’ala tradizionale conservatrice-liberale, moderata, che ha espresso anche degli importanti presidenti nel dopoguerra, è scomparsa dalla prima fila. Hanno preso il sopravvento gli estremisti. Soprattutto si è determinata una radicalizzazione dell’elettorato di carattere antropologico, prim’ancora che politico. La divisione dell’elettorato è chiarissima…

Vale a dire?
Da una parte c’è l’elettorato urbano, più istruito, più multirazziale, più aperto anche alle nuove tematiche di genere, e dall’altra parte c’è l’America più tradizionalista, dei profondi territori dell’ovest e del sud. Questo è il fenomeno nuovo degli ultimi vent’anni. Non stiamo più all’interno di uno scontro tra linee politiche, anche le più divergenti tra loro, ma in uno scontro antropologico tra due stili di popolazione americana totalmente contrapposti. Quella di Trump è anche una reazione alle posizioni più “liberal” presenti nel partito Democratico per ciò che concerne la sfera delle libertà sessuali, Lgtbq, trasgender e via dicendo. Una chiusura che va oltre il tradizionale puritanesimo conservatore. A ciò si aggiunge la sua concezione assolutista, quella di una persona che non deve essere sottoposta ad alcun limite e contrappeso. Lasciamo stare i suoi estremismi caratteriali. La questione su cui riflettere è che questa sua idea corrisponde al modo di pensare di quella larga parte degli americani che ormai si contrappongono radicalmente ai settori più colti e urbanizzati della popolazione.

La scelta della ricandidatura di Joe Biden alla presidenza è quella più appropriata, vincente, per il partito Democratico?
Non è una candidatura eccelsa, data l’età e la situazione di Biden, ma d’altra parte non c’è nessun altro candidato emerso in questi anni, che abbia la capacità di aggregare sia l’elettorato nero sia l’elettorato della residua classe operaia e soprattutto dei sindacati organizzati, sia l’elettorato del ceto medio. Tra i Democratici, non è emerso nessun personaggio di primo piano in grado di fare quello che tradizionalmente Biden è riuscito a fare con la sua storia trentennale di rappresentanza di questo centro, con aperture di Welfare del partito Democratico.

Quanto peserà la guerra in Ucraina in questa campagna presidenziale?
Pochissimo. Ciò che peserà saranno le grandi questioni interne, cioè le questioni di carattere etico e quelle economiche e di Welfare.

Per tornare a Trump. Sul tycoon, lei professor Teodori, ha scritto diversi e importanti saggi. Si aspettava questa sua capacità di resistenza?
Francamente no. Questa è stata una sorpresa. Come lo era stata la sua elezione a presidente. Nessuno pensava che un personaggio senza storia politica e senza alcun reale rapporto con il mondo repubblicano tradizionale, potesse avere la capacità soprattutto di essere nominato. Sottolineo questo aspetto, perché noi parliamo sempre delle elezioni di novembre. Ma quello che è fondamentale nella dialettica politica americana non sono tanto le elezioni di novembre, le presidenziali, quanto le nomine all’interno dei due partiti, che di fatto sono decisive. Lì è stata la grande sorpresa per Trump. Una sorpresa che indicava allora proprio quella radicalizzazione di carattere antropologico tra due Americhe, l’America dell’acqua e della terra, così veniva definita, l’America urbana e l’America rurale, Una radicalizzazione che ha lasciato il suo segno proprio nella elezione di Trump.

Che America è quella che esce dai 4 anni di presidenza Biden?
Biden, data la situazione di radicalizzazione di cui abbiamo parlato, è stato un buon presidente, ha investito sui problemi del Welfare, dell’ambiente, dell’istruzione, dell’assistenza sociale, sulle questioni del clima, tutto quello che era possibile fare con un Congresso omogeneo alla presidenza soltanto in uno dei suoi due rami, sia prima che dopo le elezioni di mezzo termine. Il suo successo popolare è stato sancito anche dalle elezioni di mezzo termine. Normalmente, in quell’appuntamento elettorale, il presidente viene sconfitto e tutti pronosticavano una gravissima sconfitta per il presidente in carica, Biden, anche per il suo profilo, per la sua vecchiaia. In realtà, per la prima volta dopo tanti anni, le elezioni di mezzo termine lo hanno profondamente rafforzato. Biden ha conquistato il Senato, cosa che non aveva prima, ha battuto quattro-cinque candidati trumpiani in alcuni stati, e questo ha dimostrato che in fondo la sua presidenza, apparentemente moderata, senza grandi impennate, ha avuto un peso. E questo peso lo ha avuto proprio per il consenso che Biden riceve nell’area centrale e, last but not least, e nell’elettorato femminile, soprattutto per il tema dell’aborto che ha molto contato.

3 Agosto 2023

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