L'ordalia contro i lavoratori
Negando il salario minimo non si sconfigge la povertà
Chi governa non può dire “sopprimiamo l’idea di aiutare i lavoratori poveri”: quei 3 milioni di persone hanno diritto a una soluzione reale a un problema reale
Politica - di Cesare Damiano
Chi ha paura del salario minimo? La domanda ci viene spontanea vedendo le reazioni del Governo alla proposta di legge delle (quasi tutte) opposizioni. Vedremo la prossima settimana come andrà a finire in commissione Lavoro della Camera: mi auguro che prevalga la ragionevolezza e non l’estremismo di chi pretenderebbe di votare l’emendamento di maggioranza che prevede, brutalmente, la cancellazione della proposta.
Si può essere a favore o contro il salario minimo, ma quello che non si può negare è che ci siano, secondo l’Istat e non solo, più di 3 milioni di lavoratori che stanno al di sotto della retribuzione di 9 euro lordi orari, diventata ormai un valore-soglia simbolico per l’individuazione del salario dignitoso. Se le cose stanno così (mi viene in mente la canzone di Sergio Endrigo, era il 1963) possiamo almeno essere d’accordo sul fatto che, nel nostro Paese, una questione salariale esista. Mettere la testa sotto la sabbia, come vorrebbe fare il Governo, non serve a niente. Siamo in un’epoca che ci costringe a rivedere i paradigmi politici, economici e sociali ai quali ci siamo, bene o male, ispirati a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.
Ormai le nostre argomentazioni sono costantemente condite dalla parola “transizione”: ecologica, digitale e infrastrutturale. A queste specifiche declinazioni aggiungerei la “transizione sociale”. Compito della politica e degli stakeholder in generale, sarebbe quello di ridisegnare l’orizzonte prossimo venturo leggendo in profondità i processi e le mutazioni in corso, sempre più marcate e rapide, ma questo non avviene. Non si riesce a uscire dal piccolo cabotaggio quotidiano per cui, discutere di salario minimo, diventa una pura contrapposizione ideologica e di bandiera e non, viceversa, l’occasione per affrontare un tema ormai da lungo tempo segnalato dalla moderna sociologia e dagli studiosi di mercato del lavoro: il fenomeno dei working poor. Accontentarsi di enfatizzare e amplificare propagandisticamente i risultati della crescita quantitativa dell’occupazione significa non leggere la qualità dei processi in corso e i mega trend che disegnano le tendenze di medio-lungo periodo. Non c’è dubbio che ci troviamo di fronte a un aumento degli occupati, dopo la gelata del 2020, ma soprattutto del 2021.
Per leggere in modo appropriato quello che è successo prendiamo allora a riferimento dati oggettivi e, quindi, non partigiani: quelli di Eurostat relativi al primo trimestre degli anni che vanno dal 2019 al 2023. L’occupazione, nella fascia compresa tra i 20 e i 64 anni, nell’Unione Europea a 27, è arrivata a 195 milioni, con una crescita del 2,9% (2023 su 2019). Sopra la media si collocano la Spagna, con un +4,2%, la Francia e la Polonia, con un +3,4%, la Germania con il +3,3% e, sotto la media, l’Italia, con una crescita dell’1,5%. Va meglio, per il nostro Paese, per quanto riguarda il tasso di occupazione che passa, nell’Europa a 27, sempre secondo Eurostat, dal 72,5% del 2019 al 75,3% del 2023, con una crescita del 2,8%.
In questo caso l’Italia, con un + 2,7%, non solo si avvicina alla media della crescita europea, ma sopravanza Germania, Spagna e Francia: unica eccezione è la Polonia con un formidabile + 5,8%. Perché il nostro Paese migliora il tasso di occupazione in misura più intensa rispetto alla dinamica degli occupati? La risposta è semplice: è per via del declino demografico della popolazione in età di lavoro. È un fatto matematico. Inoltre, il livello del tasso di occupazione dell’Italia, che ha raggiunto la cifra record del 66%, sempre considerando la popolazione in età compresa tra i 20 e i 64 anni, deve confrontarsi con quello della Germania che è all’81,4% e persino con quello della Spagna, al 69,9%. Quindi, i buoni risultati dell’Italia si inscrivono in un trend generale di miglioramento e non sono tra i più brillanti.
Torniamo al lavoro povero: la contraddizione tra crescita degli occupati e una consistente e stabile porzione di mercato del lavoro caratterizzata da precarietà, bassi salari e assenza di dinamiche professionali e di carriera, richiede interventi drastici e in profondità, dei quali il salario minimo per legge è uno degli strumenti. Centrale diventa una revisione del modello di contrattazione che deve obbedire a regole stringenti: non è possibile rinnovare i contratti che scadono ogni 3-4 anni dopo 10. Vuol dire programmare consapevolmente la perdita del potere d’acquisto.
Detassare gli aumenti salariali dei contratti, ma solo di quelli che vengono rinnovati alla scadenza naturale, e togliere gli incentivi ai settori che non li rinnovano, può rappresentare un valido indirizzo per una legge di sostegno alla contrattazione; in secondo luogo, occorre rendere strutturale la diminuzione della pressione del cuneo fiscale sulle buste paga e non solo per i mesi che vanno da luglio a dicembre di quest’anno; infine, adottare gradualmente il salario minimo. Del resto basta leggere i contratti di lavoro esistenti: molti, seppure una minoranza, stanno al di sotto dei 9 euro. Addirittura, alcuni, sotto i 6 euro e li conosciamo a memoria: lavoro domestico non convivente, vigilanza privata e operai agricoli.
Il cantiere va aperto, anche perché la proposta di legge delle opposizioni prevede, all’articolo 7, che “La legge di bilancio per il 2024 definisce un beneficio in favore dei datori di lavoro, per un periodo di tempo definito e in misura progressivamente decrescente, proporzionale agli incrementi retributivi corrisposti ai prestatori di lavoro al fine di adeguare il trattamento economico minimo orario all’importo di 9 euro…”. Dunque, c’è tutto lo spazio per una discussione seria e di merito anche in relazione alla legge di Bilancio.
L’impressione che si ricava, soprattutto se la proposta sul salario minimo verrà cancellata, è che il Governo non abbia le risorse per soddisfare le promesse elettorali: fisco, pensioni, cuneo fiscale, salario minimo e pagamento non rateale e posticipato del Trattamento di Fine Servizio per i lavoratori pubblici come sentenziato dalla Corte Costituzionale, sono gli appuntamenti d’autunno, assai costosi, con i quali il Governo dovrà fare i conti.
E pare, a occhio, che i conti non tornino e che aumenti il nervosismo nelle fila del centrodestra: classificherei come esilaranti, per carità di patria, le recenti uscite di Musumeci e Tajani. Il primo confonde il salario minimo con l’assistenzialismo; il secondo ha addirittura tirato in ballo l’Unione Sovietica. Forse si vuole buttare in vacca una discussione seria.