Lo scontro sul lavoro

Perché la destra non vuole il salario minimo, Tajani: “Non siamo in Urss”

Il Pd allunga i tempi dei lavori per impedire che la destra affossi la legge. Scivolone del neosegretario di FI: “Non passerà, non siamo in Urss”. Calenda: “Dice un’imbecillità”

Politica - di David Romoli

19 Luglio 2023 alle 16:30 - Ultimo agg. 19 Luglio 2023 alle 16:41

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Perché la destra non vuole il salario minimo, Tajani: “Non siamo in Urss”

La premier almeno ci prova ad articolare argomentazioni non sciocche e non del tutto infondate per spiegare il suo no al salario minimo in discussione al Senato. Tajani invece inaugura la sua carriera di segretario con una enormità quasi imbarazzante: «Vogliamo che il lavoratore guadagni bene, non che tutti abbiano lo stesso stipendio come nell’Urss. Il salario minimo è una sistema vetero-socialista che abbassa e non aumenta il salario, distrugge la meritocrazia e livella tutto verso il basso».

È inevitabile che lo subissi un coro pronto a ricordargli che il salario minimo è cosa normale nei Paesi a capitalismo avanzato, quelli del G7 come Usa, Francia e Germania. «Ha detto un’imbecillità», chiosa Calenda e per una volta il commento è davvero esaustivo. Il neosegretario si accorge della topica e cerca di correre ai ripari ma in un caso simile non c’è correzione che tenga e la goffaggine quasi peggiora il danno: «Per i lavoratori si lotta non con la retorica ma con i fatti. Ecco la lettera con la quale ho rinunciato a 468mila euro di indennità da Commissario europeo per lasciarli ai cittadini in difficoltà». Umanamente encomiabile ma la sciocchezza affermata poche ore prima non cambia di una virgola.

Non è il pericolo dei cosacchi di Stalin l’appiglio che la destra usa al Senato per affossare la proposta di legge delle opposizioni sul salario minimo. Sono, più prosaicamente, le casse vuote. Il presidente della commissione Lavoro Rizzetto, FdI, spiega la volontà di affossare la legge con un colpo solo ricorrendo all’assenza di coperture: «Lo dico con una sfumatura tecnica: all’art. 7 non ci sono le coperture finanziarie». È una scusa mal abborracciata e Cecilia Guerra, ex viceministra all’Economia non ci mette molto a smascherarla in coppia con Arturo Scotto: «L’art. 7 dispone che sia la legge di bilancio a definire la copertura di un possibile sostegno temporaneo alle imprese che devono adeguarsi al salario minimo. Il testo non richiede copertura nell’ambito del provvedimento e Rizzetto si arrampica sugli specchi».

L’alibi delle coperture mancanti è fatiscente ma non basta certo questo a far desistere la maggioranza dalla scelta di affondare subito la legge con un emendamento soppressivo. Avrebbe dovuto essere votato ieri. L’ostruzionismo delle opposizioni, che a eccezione di Iv firmano tutte il testo base congiunto a prima firma Conte approvato mercoledì scorso in commissione, lo ha impedito. Il voto è slittato a oggi ma la battaglia riprenderà in aula, dopo essersi ripetuta ieri sera in commissione convocata per ridiscutere il testo: gli iscritti a parlare dell’opposizione alla fine della seduta di ieri erano già 10.

La proposta ha i suoi punti deboli. La cifra di 9 euro lordi all’ora implica realmente il rischio che molti datori di lavoro che oggi pagano di più considerino quel salario non minimo ma massimo e abbassino i salari invece di alzarli. La Cgil ha deciso di appoggiare la proposta solo all’ultimo momento e quasi obtorto collo: il colpo che la legge infliggerebbe alla contrattazione collettiva è indiscutibile. Allo stesso tempo però è l’istantanea stessa della situazione in Italia, così come immortalata dai dati Svimez e Istat, a dire che un intervento è più che necessario, magari correggendo i limiti della proposta delle opposizioni invece di affossarla affermando, come fa la ministra del Lavoro Calderone, che “basta la contrattazione”.

La contrattazione non basta. Non quando su 63 contratti collettivi presi in considerazione dalla Fondazione consulenti del lavoro ben 22 prevedono un salario orario al di sotto dei 9 euro lordi. Non quando 3 milioni di lavoratori dipendenti, ovunque ma nel Sud più che nel resto d’Italia, ha salari che non arrivano a quei 9 euro orari. Non quando le retribuzioni lorde reali, rispetto al 2008 sono scese di 3 punti nel Centro-Nord e di ben 12 nel Sud. Il salario minimo non è la panacea di tutti i mali, non c’è dubbio. Ma, secondo i dati squadernati dall’Istat di fronte alla commissione Lavoro, per circa 3,6 milioni di lavoratori i 9 euro all’ora vorrebbero dire 804 euro in più all’anno e anche a togliere dal conto gli apprendisti, che pare debbano essere sottopagati per principio, resterebbero comunque 3,1 milioni di lavoratori, nella stragrande maggioranza operai, con 800 euro in più all’anno.

Per i lavori “a bassa retribuzione”, cioè soprattutto la ristorazione, il supporto alle imprese e i servizi di cura, l’incremento sarebbe più robusto, in molti casi sino a 1500 euro in più l’anno. Il pollice verso del governo non nasce dalle critiche sensate, che la premier adopera come alibi, ma dalla scelta mai confessata però esplicita sin dalla legge di bilancio dell’anno scorso, di far pagare ai più poveri il prezzo della crisi e della decisione di uniformarsi al rigorismo europeo persino più di quanto l’Europa non chieda, con punte di vera e propria austerità.

Quel che resta, coerentemente all’impianto ideologico compiutamente di destra e non di una destra populista di governo, va usato per tagliare le tasse. Anche al netto delle proposte puramente propagandistiche di Salvini, la delega fiscale che il governo vorrebbe approvare prima dell’estate anche alla Camera è modulata per agevolare il ceto medio e medio alto. Anche su questo terreno ieri la maggioranza ha dovuto registrare una piccola battuta d’arresto: il termine per la presentazione degli emendamenti, fissato per oggi alle 18, è slittato alle 12 del 21 luglio e un’opposizione un po’ più battagliera di quanto non sia stata sinora proverà a far slittare l’approvazione oltre la pausa estiva. Missione difficile.

19 Luglio 2023

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