Il racconto
Un secolo dopo gli ebrei in fuga non è cambiato nulla
Editoriali - di Iuri Maria Prado
Un giorno di fine settembre del 1943, in un posto di polizia dalle parti di Bruzella, nel Canton Ticino, un vecchio fa domanda per poter restare nella Confederazione. Comunica le proprie generalità: Carlo Strauss, nato a Francoforte sul Meno il 27 Aprile 1864. Il motivo della richiesta è scritto in calce al modulo, verosimilmente dall’ufficiale di polizia, in un tedesco non ben padroneggiato: “Weil in Italien die Judenverfolgung eingesetzt hat” (pressappoco: “Perché in Italia è attuata la persecuzione degli ebrei”).
Carlo Strauss (nato Karl, in realtà) era il mio bisnonno. La notte precedente, per sfuggire ai rastrellamenti nazisti, aveva passato la frontiera, per i boschi, venendo da Cernobbio. La figlia, mia nonna, in quello stesso periodo faceva un percorso simile, più a Ovest, verso Astano, con mia madre nel ventre e un bambino di sette anni, mio zio, per mano. Almeno tre elementi di interesse emergono dall’esame di quel modulo. Il primo, nella parte alta: la dicitura “Permesso di dimora – soggiorno – domicilio...”, e nessun numero o sigla identificativa a compilare la parte mancante, ma solo una parola: “Ebreo”. Ciò che in Italia ormai bastava (i documenti recavano più precisamente “razza ebraica”) per essere caricati sui carri bestiame, ma ciò che ancora non bastava (ci arrivo subito) per trovare rifugio in Svizzera.
La seconda curiosità del documento cade appunto in proposito: è l’annotazione secondo cui il profugo “Ha una sorella in Ginevra”. Perché questa nota ulteriore? Non bastava, per accogliere la richiesta di rifugio di un vecchio ebreo, il fatto non propriamente sconosciuto che gli ebrei fossero perseguitati e fossero altrimenti destinati al sicuro viaggio nei vagoni piombati? No, non bastava. Gli svizzeri, infatti, avevano in realtà politiche abbastanza restrittive e discriminatorie sull’ingresso degli ebrei in fuga: facevano entrare donne e bambini, ma non i maschi adulti, salvo appunto che dimostrassero di avere parenti in Svizzera. Ed ecco allora il motivo di quell’aggiunta apparentemente incongrua: non una gratuita precisazione sulle diramazioni familiari, ma la soddisfazione di un requisito la cui mancanza avrebbe comportato il diniego di ingresso.
Il terzo elemento di apparente stranezza è affogato nella parte bassa dello scritto, questa volta in un italiano a sua volta poco digesto: “Ha un po’ mezzi”. Cioè quel vecchio aveva un po’ di soldi, o qualche oggetto di valore: e chissà se l’annotazione veniva dall’autonoma iniziativa dell’anziano, per rendere più suadente la domanda di asilo, o se invece rispondeva alle investigazioni del funzionario preoccupato di far entrare un nullatenente.
Avevo letto cronache ticinesi sul respingimento degli ebrei proprio nei pressi del posto di polizia in cui il bisnonno sottoscriveva quel “Formulario n. 110”: ma erano notizie, per così dire, senza pezza d’appoggio, ritratte dai ricordi di qualche paesano. Quel documento, che diventava lasciapassare grazie all’ostentazione di una parentela ginevrina, racconta invece silenziosamente la sorte diversa e innominata degli ebrei che di notte attraversavano le foreste e salivano le montagne per arrivare bensì in Svizzera, ma per esserne respinti quando non potevano dimostrare un motivo valido per rimanere: un motivo che non si riducesse all’insufficiente notizia che gli ebrei (questa volta senza distinzione di età, di sesso e di censo) erano rastrellati per la deportazione verso i campi di sterminio.
Non erano tutti salvi gli ebrei che arrivavano nei villaggi oltre la frontiera. E nella storia di questa immane tragedia c’è dunque posto anche per questo piccolo capitolo, scritto in tre lingue dietro la schiena dei monti di Lombardia: la vicenda dei bambini e delle mogli che in quei villaggi salutavano per l’ultima volta i padri e i mariti soltanto ebrei, soltanto perseguitati, soltanto destinati alla morte, e perciò senza il diritto di essere salvati.