Così fu tradito

Chi era Giovanni Falcone, un gigante odiato da mafia e antimafia

31 anni fa la mafia lo uccise con un attentato mostruoso. L’antimafia l’aveva lasciato solo e lo criticava

Editoriali - di Piero Sansonetti

24 Maggio 2023 alle 14:22 - Ultimo agg. 24 Maggio 2023 alle 15:42

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Chi era Giovanni Falcone, un gigante odiato da mafia e antimafia

Il Tg3, quel pomeriggio, disse che c’era stato un attentato vicino all’aeroporto di Palermo. Che Falcone era ferito. Poi arrivarono le conferme. Poi la notizia che era morto. Poi che era morta anche la moglie, anche la scorta. Solo uno dei poliziotti che lo proteggevano era sopravvissuto, ma era gravissimo. Son passati trentun’anni da quel pomeriggio da cani. Ricordo tutto benissimo. Ero in redazione. Chiamai Veltroni, che era direttore da pochissimi giorni. Non era al giornale. Tornò subito. Eravamo sconvolti. Forse persino impauriti. Poi i funerali, e quel pianto struggente della moglie del poliziotto Vito Schifani. “Loro non si pentono, non si pentono…”.

Per chi da qualche anno seguiva le vicende alterne della lotta sanguinosa tra una parte della magistratura palermitana (minoritaria) e la mafia fu una frustata. Che ci costrinse a ripensare a molte cose. Falcone, quando fu ucciso, era molto isolato. Contro di lui c’erano non solo le forze larghe e potenti controllate dalla mafia. Contro di lui si era scatenata una campagna di sinistra che aveva messo insieme robusti settori dell’antimafia. Piuttosto, direi, della presunta antimafia. Che però si era aggregata attorno ad alcune figure simboliche, e attorno ad alcuni giornali, e alcune trasmissioni Tv, e si era autoassegnata il distintivo. Il distintivo che diceva: l’antimafia siamo noi. Noi e basta. Lo portano ancora addosso.

Proprio questi settori della cosiddetta antimafia avevano isolato Falcone e lo avevano messo, diciamo così, a processo. Lo accusavano di essere troppo indulgente, troppo garantista, di fare il gioco delle cosche. E di proteggere la politica, con quella sua “ idea stupida” secondo la quale il terzo livello non era mai esistito. E con quella fissazione che per incriminare e condannare servissero le prove…

La tesi degli “antimafia” – che ancora è la tesi che domina tra gli eredi dell’“antimafia” – era semplice e folle: la vera mafia è il terzo livello, cioè la politica; e la mafia è solo e appena appena il braccio armato. Riina, o Badalamenti, o Luciano Liggio, o Bontade erano semplici funzionari del potere occulto. Chi erano i capi? Bastava buttare giù un po’ di nomi e non c’era bisogno di prove, neppure di indizi. Bastava il distintivo antimafia per dire: è così. I capi? Andreotti, naturalmente, era il capo, e forse anche Fanfani, e poi Berlusconi, Dell’Utri e tutti gli altri. Anche qualche socialista, anche qualche repubblicano. E Mannino, e magari Mancino, e un po’ Conso, e poi pure Napolitano. Questi nomi vennero dopo. Allora il punto fermo era Andreotti, l’amico dei fratelli Salvo. Ci vollero anni per accertare che Andreotti i fratelli Salvo non li conosceva. E così, quando Falcone incriminò il falso pentito Pellegriti che accusava Andreotti, o meglio, lo calunniava, l’antimafia latitante si scagliò contro Falcone. È complice, è complice.

Giovanni Falcone morì così. Solo. Solo e abbandonato. E accusato da gruppi di antimafiosi che non avevano mai mosso un dito per contrastare la mafia. Lui era l’uomo che più di tutti gli altri esseri viventi aveva colpito al cuore Cosa Nostra. Ne aveva avviato la distruzione, col maxiprocesso. Lui era un genio delle indagini. Probabilmente è stato il più straordinario magistrato mai apparso sul suolo italiano. Ma non produceva vantaggi politici a nessuno. Non era interessato a questo. Concepiva il lavoro del magistrato come una cosa molto concreta: cercare il reato, seguire i soldi, trovare il colpevole, e poi dal colpevole risalire all’organizzazione. Lavorava con grandi collaboratori. Indagava a tappeto. E così si creava nemici, nemici, nemici. Soprattutto nella magistratura palermitana. Alcuni erano suoi nemici perché erano amici della mafia. Senza fare nomi. Altri solo per invidia, perché non volevano che diventasse troppo potente. O semplicemente per paura. A Palermo, in quegli anni, se andavi seriamente contro Cosa Nostra rischiavi davvero la pelle.

Restò solo Falcone. Negli ultimi mesi di vita lo difendevano solo Claudio Martelli, Gerardo Chiaromonte, un drappello di socialisti e cinque o sei magistrati amici: Borsellino, Di Lello, e pochi altri. E poi c’erano i Ros dalla sua parte. I carabinieri del colonnello Mori, che sotto la direzione di Falcone svolgeva le indagini e aveva preparato un dossier esplosivo. Si chiamava “mafia e appalti”. Bisognava lavorare ancora su quel dossier per arrivare a stroncare i legami tra le imprese del Nord e i corleonesi. Perché nel frattempo in Sicilia era avvenuta una cosa sconvolgente. Cosa Nostra era sfuggita di mano ai vecchi stati maggiori palermitani – Badalamenti, Bontade…- ed era stata conquistata dai Corleonesi di Riina e Provenzano. I corleonesi erano un corpo estraneo alla vecchia mafia. Erano un gruppo paramilitare, violentissimo, che concepiva la propria attività come qualcosa da proteggere con la morte e con le stragi. Non con la politica. I corleonesi non avevano nessun rapporto col mondo politico. Assomigliavano più ai narcos del Messico che ai vecchi siciliani di Cosa Nostra. Falcone aveva messo Mori e i Ros a lavorare sul dossier che poteva stroncarli. È molto, molto probabile che il motivo vero per il quale fu ucciso, Falcone, fu quello: fermare l’indagine sugli appalti.

E infatti Paolo Borsellino, dopo la sua morte, fece fuoco e fiamme per ereditare il dossier Mori. Voleva andare a fondo. Aveva capito che Giovanni era arrivato vicino vicino alla spallata finale. E che la spallata finale avrebbe tirato giù un bel pezzo del mondo capitalista. Non aveva capito però che la mafia era ancora potentissima. E che proprio perché stava per crollare il muro avrebbe alzato il tiro. O forse l’aveva capito, e se ne fregava.

Già, le cose andarono così. La mafia uccise Borsellino e la Procura di Palermo, nel silenzio generale, archiviò il dossier Mori. Indagine finita. Poi iniziarono i depistaggi. Fino al depistaggio principale: la bufala della trattativa stato mafia che serviva a bloccare definitivamente il colonnello Mori e a sviare le indagini sugli imprenditori del Nord. I giornali lanciarono il nome di Berlusconi, e i Pm appresso, perché quel nome serviva a coprire i nomi dei colpevoli. Sapevano tutti che Berlusconi con la mafia non c’entrava proprio niente.

E oggi? Beh, non siamo molto lontani da allora. I circoli dell’antimafia ufficiale, quelli che infilzarono Falcone, sono ancora forti e dettano legge. Il dossier Mori è morto. Alcuni giornali continuano a raccontare della trattativa, e a sviare, e a depistare, e a proteggere chi aveva colpe gravi.
Ha ragione Mattarella, la mafia non è invincibile. E Cosa Nostra, in larga misura, è stata ferita a morte. Resta il bubbone della politica che vuole utilizzare mafia e antimafia per fare consensi, e polemiche, e per colpire l’avversario. Contro quel bubbone non si può far niente. Il giustizialismo è uno dei grandi mali della modernità, e per ora nessuno ha trovato una medicina che lo fermi.

24 Maggio 2023

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