Lettere sul carcere

“C’era sempre fretta nel mio primo e ultimo giorno in carcere”

Giustizia - di a cura di Rossella Grasso

20 Luglio 2023 alle 16:58 - Ultimo agg. 19 Febbraio 2024 alle 11:05

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“C’era sempre fretta nel mio primo e ultimo giorno in carcere”

La fretta di entrare in carcere, uguale a quella di andarsene. G.M. ha passato 20 anni in carcere. Nella sua mente sono rimasti indelebili due momenti: quando è stato portato lì a bordo di una volante a lampeggiante spiegato, e quando è stato mandato a casa. Due momenti che incorniciano un tempo sospeso, i 20 anni trascorsi in carcere. Fuori la vita che corre, dentro il tempo che si ferma. Poi, come un nastro riavvolto a velocità la vita riparte. Riportiamo di seguito la lettera di G.M. a Sbarre di Zucchero

Primo giorno 11-05-1999 ore 23.30
Nel tragitto dalla questura al carcere abbiamo percorso circa 30km, quasi come avessero voluto concedermi un ultima lunga passeggiata. Il lampeggiante era acceso e la luce blu dava forma a tutto quello che vedevo. La mia città sembrava vuota, e quella brezza che si percepiva segnava la fine di quella primavera e anche di molte altre a seguire. Ero lucido e cosciente, sapevo benissimo che quella era l’ultima volta che avrei visto quelle strade, e che sarebbe passato molto tempo prima che avessi avuto di nuovo la possibilità di sentirmi libero

Al mio arrivo la prima cosa che vidi e che ricordo con nitidezza ancora adesso fu la copertina del fascicolo che la polizia passò in mano alla guardia penitenziaria che mi attendeva, e un grande portone di legno. Un enorme portone di legno, molto antico. Scoprii molto tempo dopo che quello dove ero temporaneamente appoggiato come carcere circondariale era stato in un’epoca precedente un convento. Un luogo sacro rivisitato ad una funzione che di sacralità aveva ben poco. Ho subito percepito uno strano odore. Lo stesso odore che si sente più o meno negli ospedali. Attesi in una cella il medico, la mia t-shirt strappata induceva strani pensieri. Dopo la visita medica, l’ufficio matricola. Foto segnaletiche, domande di rito, mi assegnarono un numero di matricola, una sorta di acronimo estrapolato dall’anno di nascita e il fine pena, e le impronte. Già le impronte.

Era il 1999 l’epoca della digitalizzazione non era ancora sfociata, e per le impronte si usava l’inchiostro puro. Le mie mani restarono sporche per una settimana, nonostante i ripetuti tentativi di togliere tutto. Era tardi, ormai era passata la mezzanotte da molto tempo, ero stanco. Forse più mentalmente che fisicamente. Venni accolto nella prima cella disponibile, ero da solo. Iniziai a leggere le carte che mi avevano dato in mano, era il mio mandato di cattura. Poi stanco mi addormentai.

La prima notte ho dormito sprazzi, il mio sonno veniva interrotto da tanti strani pensieri, ma anche da un rumore, che mi avrebbe accompagnato per moltissimo tempo: il rumore delle chiavi sui blindati. Quel rumore nel tempo sarebbe diventato la mia quotidianità, ma io non lo sapevo ancora quel giorno. Al mattino venni spostato in una sezione di detenuti comuni, era un “camerone” di un carcere giudiziario, e non io non sarei rimasto li per molto. Era giorno, e ovunque mi girassi vedevo solo mura fatiscenti, e sentivo quello squallido odore. Il mio unico pensiero era solo quello di sopravvivere.

Ultimo giorno 11-06-19 ore 10:45
Tra permessi, art 21 e semilibertà avevo già rivisto gradualmente la libertà. Avevo riassaporato l’aria, il vento e il sole. Forse per questo l’emozione che ho provato quel giorno fu più contenuta di quello che mi sarei immaginato. Avevo fatto richiesta di affidamento, ero in attesa della concessione della misura, e stavo lavorando quando ricevetti una telefonata dall’ufficio matricola. Con la massima urgenza dovevo recarmi alla casa di reclusione per preparare le mie cose. Ero stato scarcerato. Sorrisi, e sorrido ancora adesso al pensiero di quel giorno.

Venti anni prima mi portarono in carcere con la massima urgenza e il lampeggiante acceso, 20 anni dopo con la stessa fretta dovevo sgomberare la cella e andarmene. Gli chiesi di attendere perché stavo lavorando e non potevo abbandonare il posto di lavoro. Mi avrebbero atteso. Io avevo atteso 20 anni quel momento. Non avevo niente da preparare, regalai tutte le mie cose.
Non volevo niente fuori, che mi ricordasse quel posto. Mi sembrò di vivere al contrario il primo giorno. E in matricola mi accorsi di quanto tempo fosse veramente passato. Per le impronte digitali stavolta non venne utilizzato l’inchiostro, ma un dispositivo elettronico. Mi hanno chiesto persino un campione salivare per registrare il mio DNA. Firmai ovunque mi chiesero di farlo. Attesi senza protestare il tempo che ci volle. Ne era passato già così tanto. Uscendo c’era il sole alto. Non era lo stesso sole del giorno che mi avevano arrestato e trascinato in questura. Era un sole diverso, aveva il sapore della libertà che mi veniva incontro. L’erba dei campi accanto al carcere quel giorno era profumata. E il rumore delle chiavi nella toppa per un pò lo sentii ancora, anche a casa. Poi piano piano si affievolì insieme ad altri ricordi, ormai finalmente molto lontani.

di: a cura di Rossella Grasso - 20 Luglio 2023

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