La ribellione il 16 maggio '44
La rivolta degli zingari di Auschwitz, l’unica in un campo di sterminio: l’urlo della ragazza che ruppe l’equilibrio
Cultura - di Marco Revelli
Il 16 maggio del 1944, nello Zigeunerlager di Birkenau, il “campo degli zingari” allestito nel cuore della parte più atroce di Auschwitz, specificamente destinata alla Vernichtung, letteralmente all’“annientamento”, scoppia la rivolta. L’unica rivolta in un campo di sterminio. Secondo programma le SS comandate dall’Obersturmführer Johann Schwarzhuber avrebbero dovuto procedere alla liquidazione di tutti i 6mila reclusi nel “Block IIe”, una sezione speciale del campo, dove le famiglie, contrariamente alla regola, non venivano separate, le donne potevano partorire, ma le condizioni di vita erano proibitive e le infezioni e le malattie facevano strage più che altrove. Lì erano stati concentrati i “nomadi” rastrellati prima in Germania e poi in tutta l’Europa occupata dalle forze naziste, lì il dottor Mengele faceva esperimenti mirati su quella razza “degenerata” seppur d’origine indo-europea, lì – complice l’odio delle popolazioni “autoctone”, soprattutto polacchi, ucraini, baltici, rumeni e ungheresi per quelli che venivano considerati criminali “per natura” – erano stati ammucchiati gli ultimi tra i dannati della terra. Ma quel giorno, quel popolo di straccioni senza patria, ebbe la forza di resistere alle SS armate fino ai denti, le donne in prima fila – le donne strette a difesa intorno al propri bambini – con ogni mezzo grazie alla straordinaria creatività degli “zingari” e alla loro capacità di riciclare ogni cosa che potesse trasformarsi in arma: “sassi, ferri da calza, pezzi di legno acuminati, spilloni, cucchiai affilati, tubi di ferro, vanghe”.
Quando verso le sette di sera fu ordinata la Lagerspelle, la “serrata”, i soldati si trovarono di fronte a un’imprevista insubordinazione di massa, da parte di una folla cenciosa ma compatta nel rifiuto di obbedire, silenziosa all’inizio, poi, dopo che il comandante aveva messo mano al frustino come pensasse di trattare con animali, sempre più robusta e minacciosa. Probabilmente fu l’urlo di una ragazza, presa per i capelli da uno scherano dell’Obersturmführer, a rompere l’equilibrio e a scatenare una vera a propria carica che respinse le frastornate SS, evidentemente impreparate a una tale imprevista reazione, e le costrinse a ripiegare fuori dal Block. Qualcuno provò anche a sparare qualche colpo, ma la marea era tale da non poter essere fermata nemmeno da qualche proiettile a bruciapelo, e il timore che qualche arma cadesse nelle mani degli insorti generando una reazione a catena nel Campo suggerì di soprassedere all’operazione di liquidazione.
Ritorneranno, gli aguzzini, due mesi e mezzo più tardi, dopo aver trasferito in altri lager buona parte degli uomini, il 2 di agosto, a finire il lavoro: quel giorno i 2.897 rimasti, soprattutto bambini, donne e vecchi, ridotti ormai a scheletri, febbricitanti, denutriti, moribondi, sarebbero passati per le camere a gas e i loro corpi per il crematorio che per tutto il giorno e tutta la notte avrebbe fumato, ininterrottamente. Nel gennaio del 1945, all’ultimo appello prima della liberazione del campo di Auschwitz da parte dell’Armata rossa, solo quattro “zingari” risposero. Pagavano la colpa di appartenere a un “razza pericolosa per natura” o, come l’aveva definita il famigerato direttore del Centro Ricerche per l’Igiene e la Razza di Berlino Robert Ritter, a “un miscuglio pericoloso di razze deteriorate”. Fin dal 1929 – quattro anni prima dell’avvento al potere di Hitler – erano stati oggetto delle feroci attenzioni dell’ “Ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara” che dopo averli definiti “razza impura” si prodigò affinché fosse loro impedito con misure di polizia di passare da un accampamento all’altro senza uno speciale permesso. Poi, col 1938, sarebbe venuta la schedatura di massa di quella “minoranza degenerata, asociale e criminale”, l’internamento nei campi di Buchenwald, Flossemburg e Mauthausen-Gusen, e con il 1940 la vera e propria deportazione sistematica e di massa, in vista della “soluzione finale”.
Loro lo chiamano il Porrajmos, che nella lingua romanÍ significa “grande divoramento” o “devastazione”. Oppure, anche, Samudaripen (da “sa” che vuol dire “tutti” e “mudaripen” ovvero “uccisione” cioè “uccisione di tutti”, genocidio). È l’equivalente dell’ebraica Shoah, solo che in questo caso, per questa popolazione del margine, con una cultura esclusivamente orale, quasi nessuno ne ha sentito parlare, e nel Giorno della memoria quel genocidio è poco ricordato, come se si trattasse di un sacrificio minore, e per le vittime di “figli di un dio minore”. Eppure le statistiche della morte ci dicono che lo sterminio, nel loro caso, fu radicale e sistematico: si calcola che su una popolazione di circa un milione di Rom e Sinti in Europa ne siano stati eliminati circa la metà. In alcune aree del nord e nord-est o dei Balcani, l’ “eradicazione” dei Rom, Sinti e delle altre etnie nomadi è stata tanto profonda che in Paesi come la Lituania, il Lussemburgo, l’Olanda e il Belgio fu cancellato il 100 per cento delle rispettive comunità. In Germania, su una popolazione di circa 20mila censiti come “Zigeuner” ne scomparvero 15mila. In Estonia si giunge al 90%. La stessa percentuale in Croazia ad opera dei fascisti Ustascia…
Né si salva, da questa vergogna, l’Italia dove il regime fascista perseguitò costantemente le comunità cosiddette “nomadi” a cominciare dal 1926, quando fu ordinata l’espulsione dal regno di tutti gli “zingari stranieri” per pulire “il paese dalle carovane degli zingari” considerati pericolosi per la sicurezza e la salute pubblica “in virtù del caratteristico stile di vita gitano”. E poi col settembre 1940, quando con circolare del Ministero degli Interni per tutte le Prefetture, ne veniva avviato l’internamento nel celebre campo di Ferramenti, in Calabria, e in luoghi di reclusione come Agnona (in Molise), Tossicia (in Abruzzo), o le Isole Tremiti e la Sardegna, con l’obbiettivo roboante e grottesco di colpire “il vero cuore dell’organismo gitano”.
Di quelle loro sofferenze e di queste nostre vergogne sarebbe bene ricordarsi, quando si sente soffiare dall’alto del palazzi di governo il vento maligno della discriminazione e del suprematismo razziale o “etnico”, come si dice adesso. O qualche sindaco zelante, sotto il pretesto del decoro urbano, predica più o meno velate forme di apartheid. Personalmente, quando sento l’odore di questo cattivo vento, preferisco evocare nella mente le strofe luminose del poema che recita: “Noi Rom e Sinti siamo come i fiori di questa terra/Ci possono calpestare,/ci possono eradicare, gassare,/ ci possono bruciare,/ ci possono ammazzare/ ma come i fiori noi torniamo comunque sempre…”.