Il dibattito interno

Perché è importante il dibattito interno nel Pd: beato un partito che discute

Non può che far bene la scelta di Bonaccini di riprendere l’iniziativa politica. Se le dispute tra Togliatti e Amendola giovavano a un partito monolitico come il Pci, figuriamoci al Nazareno

Editoriali - di Michele Prospero

14 Luglio 2023 alle 19:30

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Perché è importante il dibattito interno nel Pd: beato un partito che discute

È un bene per il Pd, e per la sua stessa nuova leader, che Stefano Bonaccini riprenda l’iniziativa politica e precisi i caratteri specifici di una componente che al congresso è risultata maggioritaria tra gli iscritti. La rinuncia ad esercitare un ruolo attivo da parte della sua area riformista sarebbe un ostacolo assai grave per la ripresa dei democratici e minerebbe anche il necessario consolidamento dei rapporti di forza emersi a seguito delle primarie che, con l’incoronazione di Elly Schlein, hanno ribaltato in maniera clamorosa gli equilibri numerici registrati nei circoli.

Mentre tutti gli altri simulacri di partito operanti nel sistema politico italiano figurerebbero come evidenti trasgressori se esistesse una legislazione conforme allo spirito dell’articolo 49 della Costituzione, il Pd supererebbe in solitaria il test del “metodo democratico” interno, con la forte raccomandazione però di risolvere l’intollerabile polarizzazione tra partecipazione degli iscritti e sovranità degli elettori indifferenziati. L’iperdemocrazia può generare inconvenienti diversi ma insostenibili al pari di quelli sprigionati da formazioni monocratiche che per decenni non hanno mai celebrato congressi, mantenuto una vita associativa minima, espresso organismi dirigenti legittimati.

Lontano da quella terra di nessuno che sono i partiti personali, dove vige un perenne stato di eccezione che affida al capo poteri incontrollati, Bonaccini rimarca la specificità del Nazareno come residuale forma-partito che, pur nelle evidenti debolezze e incertezze statutarie, consente tuttavia di esercitare una vita organizzata entro una struttura con regole e procedure riconoscibili. Grazie alla sua biografia politica, egli ha fatto in tempo a conoscere l’eco delle grandi battaglie che si sono combattute a Botteghe Oscure in nome del pluralismo, della libertà del dissenso.

Qualche anno fa Roberto Roscani ha recuperato le carte dell’affondo durissimo che in un Comitato centrale Amendola pronunciò contro Togliatti battendo sulla verifica del consenso delle differenti posizioni, sulla libera manifestazione delle specifiche sensibilità culturali. Ancora più celebri sono le invocazioni di Ingrao al dubbio e alla produttività di un soggetto variegato. Nelle due grandi scuole eretiche del vecchio Pci, l’espressione di eccentrici punti di vista conviveva con la responsabilità di una prospettiva unitaria riconducibile all’adesione ad una stessa concezione del mondo.

Quel carattere monolitico, garantito dalla solida copertura ideologica, è ora precluso al Pd, organismo post-identitario tenuto insieme da una colla assai meno resistente come la semplice condivisione di un programma. Rispetto alla tonalità assai vicina alle corde di una sinistra “liberal” di ascendenza americana che la nuova segretaria ha imposto con coerenza, ma non senza i mugugni della componente cattolica, l’istanza sollevata da Bonaccini rimarca il legame con l’amministrazione dei territori e la vocazione di governo. Emblematici di questa curvatura più pragmatica sono la scelta di Cesena e il richiamo a Prodi.

Sul valore simbolico di Cesena, e sullo spirito civico indomabile della Romagna distrutta dalla natura nemica, andrebbe recuperata una bella pagina scritta da Giuliano Ferrara nei giorni della tragedia. L’esecutivo, che nega al presidente della Regione il fisiologico ruolo di commissario per la ricostruzione, o una provocatoria “indagine” di Report sugli appetiti cementificatori di una storica esperienza politica messa in blocco sul banco degli imputati, intendono colpire proprio lo straordinario incastro di terra e sinistra di governo che è all’origine della invenzione del modello emiliano.

La costruzione esemplare dei Fanti, Turci, Bersani, è certo qua e là arrugginita e si presenta con punte di usura, ma la sua essenza resiste nel tempo e allontana con forza la pazza idea della destra meloniana e leghista di espugnare un territorio alieno. Il fatto che proprio Bonaccini sia al vertice nelle classifiche di gradimento dei presidenti di Regione dà, in fin dei conti, una qualche fondatezza alle preoccupazioni di Fratelli d’Italia, che non lo hanno voluto come gestore dell’emergenza post-alluvione perché lo temono come possibile futuro competitor per la guida del governo nazionale.

Quanto poi alla prospettiva da disegnare per il medio periodo, il ritorno in scena di Prodi è un fatto politicamente rilevante che dovrebbe sollecitare sia Bonaccini che Schlein a un radicale aggiustamento del profilo del partito. La chiamata in servizio dell’ideatore dell’Ulivo non deve rappresentare un puro omaggio ad una personalità tragicamente ferita negli affetti o un debito di riconoscenza verso colui che per due volte sconfisse Berlusconi, ma essere al centro della sterzata senza la quale il Pd continua a balbettare.

La guerra sta producendo in Europa una svolta a destra: nei paesi dell’Est e della Scandinavia trionfa il nuovo “conservatorismo” – in realtà, spesso, si tratta di movimenti dalle fresche simpatie neo-naziste! – attestato su una linea bellicista e simbologie ultra-atlantiste; in Francia e Germania, invece, sono in ascesa forze radicali filoputiniane e retrive che sfruttano il risentimento per le ricadute economiche del conflitto nei due Stati più importanti dell’Ue. La sinistra (tranne che a Parigi) è quasi ovunque schierata per le armi. Senza una chiara posizione tesa alla costruzione delle condizioni della pace, non si dà però sinistra. Sull’allineamento con le posture americane di un sostegno alla guerra sino alla “vittoria”, Schlein è in perfetta continuità con Letta.

La lezione del Professore evoca invece la possibilità di coltivare con convinzione un approccio completamente diverso. Egli respinge la demonizzazione della Cina scelta dall’amministrazione americana come punta di diamante della nuova dottrina del contenimento. Oltre che sulla necessità di una risposta costruttiva alle istanze di un mondo inevitabilmente multipolare, il linguaggio di un “atlantista adulto” come Prodi risuona nitido anche sulla centralità di una soluzione politica al conflitto in Ucraina. Pur in contrasto con le posizioni di figure a lui tradizionalmente vicine, da Andreatta a Letta, il suo disegno impone un ripensamento radicale del ruolo attuale della vecchia Europa e una riconsiderazione profonda dell’atteggiamento del Pd.

Non meno fruttuoso appare l’insegnamento dell’ex presidente del Consiglio sui presupposti di una vittoria elettorale. La coesistenza tra la funzione di segretario e quella di candidato alla premiership non ha mai portato (in quattro occasioni) a risultati apprezzabili. Le due affermazioni del centrosinistra poggiarono sulla divaricazione tra la leadership di partito e il nome indicato per la investitura di governo. La regia politico-coalizionale di D’Alema nel 1996 e di Fassino nel 2006 è stata la chiave per il successo alle urne dell’offerta della candidatura di Prodi a Palazzo Chigi. Il recupero della capacità di coalizione è la premessa per assaporare una effettiva contendibilità della postazione di governo, senza la quale crescono la sfiducia e l’astensione.

Ancora una volta interviene una specie di astuzia della ragione che ex post si incarica di spiegare agli iscritti del Pd che in fondo, con il loro voto di febbraio, avevano torto: dopo Letta, una forza politica alle corde aveva bisogno di una figura di movimento per risalire. La stessa astuzia della ragione, però, è in grado di svelare agli elettori dei gazebo che in sostanza anch’essi si ingannavano, perché la personalità più attrezzata per cucire alleanze che vadano dal centro alla sinistra radicale, in vista di un imprescindibile fronte competitivo, è il governatore dell’Emilia rossa.

Se questo partito a due teste che però marciano in una direzione condivisa è per davvero il destino del Nazareno, qualcosa di indicativo si potrà percepire già dall’appuntamento di Cesena. I democratici, se vogliono prendere sul serio la denuncia di Prodi dei rischi di un’involuzione autoritaria connessa al potere monopolizzato dalla destra, non possono più perdere tempo.

14 Luglio 2023

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