La citazione di Chabod

La traccia per la maturità che è un tragicomico elogio alla Meloni…

Tale è l’ossessione per la “comunità di destino” che i patrioti tentano di impadronirsi del pensiero dello storico azionista, che la pensava in modo opposto. Una vicenda che ricorda l’uso che il fascismo fece di Mazzini

Politica - di Michele Prospero

22 Giugno 2023 alle 13:30

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La traccia per la maturità che è un tragicomico elogio alla Meloni…

Mai si era visto l’innalzamento della chiacchiera, che accompagna un piccolo o grande timoniere accasato pro tempore a Palazzo Chigi, a pensiero ufficiale della Repubblica. Dopo solo nove mesi, la destra ha partorito l’idea per cui la dottrina Meloni ha piena dignità culturale e può figurare come base filosofica fondamentale su cui misurare la maturità della gioventù italica.

Si offre ai maturandi la citazione di Federico Chabod ma il riferimento vero dei solerti burocrati del ministero è al pensiero della patriota della Garbatella coadiuvata nelle sue più profonde concettualizzazioni a sfondo etnico dallo statista creativo di Tivoli. Del resto, anche dopo le bacchettate ricevute dal Colle, i cognati d’Italia hanno continuato nella loro battaglia di retroguardia contro il patriottismo costituzionale reo di aver offuscato le basi etniche, sentimentali, passionali della patria. La nazione, afferma Giorgia Meloni, è una “società naturale” che è radicata nei cuori e perciò prescinde da ogni “convenzione”. Il richiamo alla “comunità di destino” si accompagna, nell’immaginario del presidente del Consiglio, al rifiuto di ogni criterio riconducibile alla volontà, alla cultura, ai diritti, alle differenze.

Su un siffatto concetto di nazione, del tutto antitetico rispetto a quello di ascendenza liberal-democratica e socialista, la destra radicale non intende recedere perché è in gioco la tenuta identitaria di una forza che non dispone di alcuna capacità di governo e deve perciò fabbricare una mitologia nazionalista per mobilitare, coprire fallimenti. L’ideale meloniano di una comunità nazionale da intendere come natura-destino, contrapposto ad ogni visione incentrata sulla convenzione-scelta, mostra che il nuovo conservatorismo, che dovrebbe distanziare i sedicenti “patrioti” di oggi dal fascismo storico, ha un volto così ambiguo da sprofondare nella venerazione delle simbologie arcaiche del Novecento.

La posta in gioco dello scontro definitorio ingaggiato sui tratti nazionali l’ha chiarita il fondamentale libro di Federico Chabod (L’idea di nazione, Laterza, 1961, p. 31) che fornisce non a caso indicazioni teoriche del tutto opposte a quelle riciclate dalla destra oggi al potere. “L’esaltazione del «sangue» e del «suolo», il trasformarsi dell’idea di nazione in quella di popolo come comunità di sangue, costituiscono la logica conclusione del modo «naturalistico» di valutare il carattere delle nazioni: che è, poi, il modo più primitivo e rozzo”. Non solo i movimenti politici totalitari, ma anche menti tra le più sottili del secolo scorso sposarono una concezione primitiva e rozza della comunità politica oggi riaffiorante a Palazzo Chigi.

Carl Schmitt sul terreno giuridico, Heidegger sul piano filosofico, negarono la costruzione moderna della nazione come progetto, scelta, edificazione culturale. Lo sforzo schmittiano fu teso a raffigurare una nozione di eguaglianza imperniata sull’appartenenza ad una medesima comunità di stirpe in perenne scontro con l’altro, l’hostis. Secondo Heidegger le radici più profonde che un popolo deve conservare sono quelle che recuperano le primordiali “forze fatte di terra e di sangue”. Non la cittadinanza inclusiva, nemmeno la costituzione che garantisce pubbliche libertà, ma sono i tratti etnici a unificare una collettività che va difesa nei suoi connotati statici e quindi immutabili, con il suolo natio a fondare l’identità di un gruppo che palesa una distanza aggressiva rispetto al nemico-straniero.

Lo scivolamento dal profilo liberal-democratico del popolo come demos, che progetta nella competizione le forme preferibili del vivere civile, al mesto recupero del connotato biologico del popolo come ethnos rinvia a una credenza che nel più lontano tempo del mito rintraccia la radice originaria della sua capacità di resistenza alle sfide esterne in agguato. Respingendo i processi di differenziazione, rifiutando ogni cenno all’emergere di identità plurime, si prospettano delle varianti di uno Stato etnico che si definisce in relazione all’alterità scrutata come minaccia. La paganeggiante religione della patria-nazione, ammonisce lo storico valdostano indebitamente tirato in ballo, “finisce con il non accettare più alcun diritto pubblico generale, col non credere più all’equilibrio e al «consorzio» dell’Europa” (Chabod, ivi, p. 89).

La “sovranità alimentare” evocata in una recuperata economia agraria, il sogno dell’autarchia spirituale sui banchi del “liceo del made in Italy”, il pathos religioso brandito contro le invasioni islamiche che infiacchiscono la civiltà occidentale, sono le versioni, a tratti caricaturali, dell’etno-populismo che conduce alla rinascita della fede nella comunità come destino. Lo stesso ricorso ossessivo alla locuzione “Nazione” nel discorso pubblico di Meloni indica una regressione culturale sempre più preoccupante che, in una epifania di patria, etnia, tricolori, scivola in un ritorno alla politica mistificante che si avvale di rappresentazioni mitiche, simboli ingannevoli.

È come azzerare la svolta linguistica antiretorica operata da Giovanni Giolitti in vista di una comunicazione politica aperta allo scambio delle argomentazioni secondo ragione (anche De Gasperi e Togliatti seguiranno questa strada), e resuscitare le forme suggestive e irrazionali di un discorso che fugge dalla conferma empirica. Con un lessico volto alla concretezza, e quindi avverso al sentimentalismo, come spiega Erasmo Leso (Momenti di storia del linguaggio politico, in Storia della lingua italiana, Einaudi, 1994, p. 735), declina in Giolitti l’utilizzo della parola “patria” che, benché “risorgimentalissima e anche liberale”, viene “soverchiata nettamente dal termine paese, più incolore o neutro”. La stessa locuzione “popolo” viene spesso sostituita con sinonimi, e comunque “quasi sempre realizzata al plurale” (classi popolari).

Il dialetto a sfondo etno-populista rilanciato da Meloni non indica semplicemente una incomprensibile volontà di non adeguarsi ai tempi della modernità costituzionale in nome di un arcaico ritorno al folclore, allo strapaese. È piuttosto una precisa scelta ideologica alla quale il governo non intende rinunciare perché il culto della nazione come entità naturale o stirpe è ritenuto una solida matrice non negoziabile di unità. Con questa discontinuità terminologica che pare di un trasparente stampo reazionario, la destra radicale conferma l’appartenenza a un mondo incantato che non prevede alcuna conciliazione con le libertà dei moderni.

Il conservatorismo di Meloni ha poco a che fare con le categorie politiche di Churchill o della Thatcher, e riconduce ad un magma immaginifico che urta pesantemente con i pilastri dell’Europa politica, il catalogo dell’autodeterminazione soggettiva, i valori dell’inclusione. L’adorazione per il gergo etnicista, la lotta senza quartiere a presidio di una comunità idealizzata e la conservazione di tradizioni e simboli assunti come eterni accompagnano speditamente entro un universo mitico che senza resistenza efficace rifugge dai principi della logica e del confronto razionale. Solo l’impatto di un qualche choc esterno potrà ridestare un pubblico smarrito che assiste passivo al ribaltamento repentino di decenni di civiltà politico-giuridica.

Federico Chabod c’entra ben poco con l’idea, oggi così malamente riciclata dai burocrati del tempo nuovo, del “mezzo altissimo, nobilissimo” della nazione. Con la scusa del riferimento alla produzione di Mazzini, l’idea nazionalista ha condito, prima ancora della resurrezione in era meloniana, l’ideologia fascista, anch’essa abituata ad attingere strumentalmente alle pagine del combattente repubblicano e a figure di spicco della destra storica risorgimentale. Il partigiano “Lazzaro”, questo era il nome di battaglia dello studioso azionista ripescato dal ministero di viale Trastevere, i conti con la nazione esaltata come stirpe, destino, natura credeva di averli fatti per sempre non solo con le sue prestigiose opere storiografiche ma anche scegliendo la macchia per combattere tra le fila della resistenza.

22 Giugno 2023

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