La linea difensiva
Davigo condannato, ma cosa c’entra la linea difensiva sul favoreggiamento della prostituzione?
L’ex pm è stato condannato a un anno e tre mesi per rivelazione di segreto. Ma secondo i suoi legali andava assolto alla luce della giurisprudenza costituzionale in materia di favoreggiamento della prostituzione
Giustizia - di Iuri Maria Prado
Notevole l’argomento adoperato dalla difesa in vista della sentenza che di lì a poco avrebbe condannato Piercamillo Davigo alla galera che, per fortuna, quel magistrato in pensione non patirà mai, nemmeno se la condanna diventasse definitiva: e cioè che l’imputato doveva andare assolto alla luce della giurisprudenza costituzionale in materia di favoreggiamento della prostituzione.
Per questa giurisprudenza, infatti, che pure ritiene legittima la punizione del favoreggiamento della prostituzione anche quando questa è volontaria e consapevole, il giudice deve in ogni caso tenere conto del principio di “non offensività” e dunque assolvere quando il fatto non arreca danno. Dice: e che diavolo c’entrava la prostituzione col processo a Davigo, imputato di rivelazione di segreti d’ufficio? Beh, è un po’ curioso ma c’entra in quel senso: come il magnaccia che dia una camera in locazione a una prostituta può non essere punito per favoreggiamento della prostituzione se il fatto non ha portata offensiva, così può reclamare assoluzione chi bensì riveli segreti d’ufficio, ma lo faccia senza nocumento, nel caso di specie nocumento alle indagini sulla cosiddetta Loggia Ungheria.
Chi distribuisce un malloppo di file giudiziari nel quadro di una propalazione inoffensiva, dunque, dovrebbe essere trattato come il ruffiano che favorisce sì la prostituzione, ma senza arrecare offesa. L’uno, per esempio, non risponde penalmente perché, nel caso di affitto a una prostituta che venda volontariamente e consapevolmente le proprie prestazioni, il giudice può vedere circostanze che escludono qualsiasi offensività del reato. L’altro, per esempio (un esempio concreto, diciamo), deve scampare la condanna perché è vero che si è appartato con un parlamentare del Movimento 5 Stelle rivelandogli il contenuto di quei file, ma il conciliabolo stava al rango (solo giuridicamente, per carità) della locazione postribolare di cui sopra, un fatto inidoneo ad arrecare qualsiasi offesa giacché la serenità delle indagini non avrebbe sofferto delle rivelazioni fatte, tra i parecchi altri, al senatore grillino.
I giudici bresciani che lo hanno condannato devono averla pensata diversamente a proposito delle analogie con il favoreggiamento inoffensivo della prostituzione: magari il senatore Morra non ce lo vedevano proprio in quella posizione, perché non aveva la consapevolezza di quella prostituta, o forse ritenevano il dottor Davigo meno meritevole di scusanti rispetto al losco affittacamere. Boh. Per il resto, il dottor Piercamillo Davigo si è difeso reclamando in buona sostanza di aver agito a difesa della legalità e contro l’illegalità del comportamento omissivo dei suoi ex colleghi milanesi, i quali (testuale) lasciavano a “marcire” il fascicolo sulla Loggia Ungheria.
Si è difeso accusando, pressappoco. E probabilmente, anzi sicuramente, era perfettamente in buona fede quando decideva di intraprendere, a contrasto di quella presunta illegalità, la sua iniziativa di privata e multiforme sollecitazione affinché fosse posto rimedio alle presunte inerzie milanesi. Ma è la stessa buona fede che gli fa dichiarare che bisogna limitare il diritto di appello (lui ha preannunciato di fare appello), la stessa buona fede che gli fa vedere la società divisa in persone perbene e manigoldi, la stessa buona fede che gli fa credere di essere lui, personalmente, giustizia, e perciò di poterla affermare nel modo che, per ora, la giustizia ha ritenuto illecito. Gli auguriamo l’assoluzione che lui non avrebbe augurato ai suoi accusati.