Il caso del Dottor Sottile
La triste parabola di Davigo, da accusatore ad accusato
Se condannato, sarà estromesso dal club perbenista, ma noi stiamo dalla sua parte. La parte di chi, colpevole o innocente, subisce la pretesa punitiva dello Stato
Editoriali - di Iuri Maria Prado
Se lo condanneranno, il dottor Piercamillo Davigo sarà estromesso dal consorzio delle persone “perbene”, la piccola parte di società opposta alla più larga fetta costituita da gente così così e da colpevoli che la fanno franca. Era lui, il dottor Davigo, a dividere il mondo in base a quel criterio: e in caso di condanna sarà quel criterio, che non è il nostro, a dire che Piercamillo Davigo non è una persona perbene.
Nel processo sulla cosiddetta “Loggia Ungheria” che lo vede imputato per rivelazioni di segreti d’ufficio, con i file dei verbali prima inguattati e poi disinvoltamente devoluti all’attenzione ufficiosa di alcuni membri del Csm e di un parlamentare grillino, Piercamillo Davigo si è difeso con energia, a volte con intemperanze per le quali è stato redarguito (s’era messo a fare domande, lui, imputato, al pubblico ministero che lo interrogava, finché gli è arrivata la notizia che fare domande era forse il suo lavoro precedente, ma adesso gli toccava sentirsele fare: e rispondere).
Noi però, quando di mezzo c’è un processo, non stiamo dalla parte delle persone perbene: stiamo dalla parte degli imputati, anche quando sono accusati di aver commesso delitti gravi (e sono gravi, molto gravi i delitti che Piercamillo Davigo avrebbe commesso). E stiamo dalla parte degli imputati non perché ci piacciano né perché coltiviamo generici desideri di assoluzione, ma perché essi diventano parte debole per il sol fatto di essere sottoposti alla pretesa punitiva del potere pubblico.
Parte debole, e perciò solo meritevole di tutela, anche quando, come in questo caso, l’imputato si difende in modo improbabile (la chiavetta Usb contenente i file che non si sa più dove sia perché, dice Davigo, “le pen drive si perdono sempre”, e poi se pure quel dispositivo fosse ritrovato quei file non ci sarebbero più, perché lui li ha cancellati “per fare posto”; le email con cui Davigo mandava a sé stesso quei file, irrecuperabili perché gli account sono stati soppressi; le chat WhatsApp, anche queste sfumate perché il cellulare aveva preso umido e Davigo l’ha permutato con uno a buon prezzo da un concessionario Apple che ha fatto il backup, sissignore, ma solo dei dati importanti e non di quelli su inutili minuzie, tipo le conversazioni su questioncelle trascurabili come un’ipotesi di eversione delle istituzioni repubblicane).
Ed è per questo motivo, per l’attenzione di garanzia che si deve comunque all’imputato, che non ci felicitiamo per la requisitoria del pubblico ministero secondo cui “Davigo si erge a paladino della giustizia per violare una legalità a suo dire violata… ma l’unica legalità a essere stata violata è quella nel salotto di casa sua”: un’imputazione un po’ moraleggiante che non rinfacceremo a chi, come il dottor Davigo, era abituato in televisione a dire che il suo compito era “far rispettare la legge” (che è il compito del poliziotto e del vigile urbano, non del magistrato).
Immaginiamo anzi che proprio a causa di quel fraintendimento del proprio ruolo – “far rispettare la legge” anziché applicarla ed esservi a propria volta sottoposto – Piercamillo Davigo si sia mosso autonomamente e – così dice l’accusa – illecitamente, facendo “chiacchiericcio” al Consiglio superiore della magistratura perché riteneva che la Procura della Repubblica di Milano fosse responsabile di inerzie investigative sulla “Loggia Ungheria”.
Ci piacerebbe – ma dubitiamo che accada – se l’occasione di questo processo a suo carico, a prescindere da come si concluderà, inducesse il dottor Davigo a un grave ripensamento del ruolo che in tutti questi anni ha creduto di dover esercitare: e a una meditazione sull’opportunità che chi è incaricato di accusare e giudicare le persone si impanchi come lui ha fatto a distributore di certificati morali. Noi continueremo a considerarlo, assolto o condannato, una persona perbene che ha fatto molto male alla cultura della giurisdizione e al tenore civile di questo Paese.