Contabilità dell'orrore

Bilancio delle vittime della strage del mar Egeo, quell’osceno refresh sul numero dei morti

Non chiediamo aiuti e soldi per convertire le piantagioni schiaviste in posti di lavoro appena civili: ma per convertire in filo spinato europeo quello italiano.

Cronaca - di Iuri Maria Prado

16 Giugno 2023 alle 16:00

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Bilancio delle vittime della strage del mar Egeo, quell’osceno refresh sul numero dei morti

Diecimila. Quindicimila. Ventimila. Venticinquemila. L’aggiornamento delle statistiche sui morti in meno di un decennio nel pozzo mediterraneo procede per blocchi di migliaia: e nel giro di pochi mesi le deplorazioni per la strage di turno diventano inadeguate, inaderenti, perché riguardano il bilancio di una realtà che nel frattempo si è aggravata di altra strage, di altro massacro, di altra carne umana lasciata a decomporsi intorno ai gusci dei barconi capovolti o infilata nei sacchi di plastica che apparecchiano le nostre spiagge in fastidiosa sostituzione dei prendisole.

Ma noi in modo noncurante assistiamo al “refresh” di quella contabilità dell’eccidio, e soprattutto facciamo finta di non vedere che il proposito di arrestarne il meccanismo, quando pure ci fosse, sarebbe contraddetto dalle retoriche sul carattere globale del fenomeno migratorio e sulle conseguenti responsabilità comuni nel regolarlo e prevenirne i drammi. Perché tutta quella chiacchiera, puntualmente culminante nella requisitoria contro l’Europa che non ci aiuta, non è rivolta a partecipare a un diverso e più strutturato sistema di accoglienza e integrazione dei migranti, ma al contrario: e cioè a ottenere la licenza di sottrarvisi e, anzi, a ricevere bensì aiuto, ma in buona sostanza per ributtarli in mare o per organizzarne la deportazione in Paesi disseminati di nuovi campi di concentramento (pare che quelli libici siano da tempo sovraffollati).

Questa storia delle frontiere meridionali del nostro continente, esposte all’urto invasivo che dovrebbe suscitare attenzioni comunitarie anziché la cospirazione per trasformarci nel campo profughi dell’Europa, sarebbe magari ascoltabile se non nascondesse l’intendimento vero: vale a dire che l’impegno a respingerli non può mica essere solo italiano, devono aiutarci, e se si tratta di mettere insieme una flotta negriera per allocarli dove non arrecano fastidio bisognerà pure che ci si dia una mossa tutti quanti. Così togliamo il lavoro ai trafficanti di esseri umani, e lo appaltiamo a un legalissimo naviglio che batte bandiera Ue. E’ un deciso salto di qualità rispetto al programma “aiutiamoli a casa loro”, di cui peraltro nessuno ha mai visto traccia di attuazione.

Si è capito che va benissimo aiutarli in casa altrui, basta che non sia la nostra, e non c’è nemmeno il problema della sostituzione etnica perché tanto sono pressappoco negri che si mischiano tra loro. Non chiediamo aiuti e soldi per convertire le piantagioni schiaviste in posti di lavoro appena civili: ma per convertire in filo spinato europeo quello italiano. Non chiediamo aiuti e soldi per ristrutturare i centri di accoglienza trasformati in luoghi di detenzione: ma per crearne una fungaia dirimpetto a noi, tutelando le nostre frontiere in questo senso diverso e cioè spostando a sud il confine della segregazione. E se continueranno a venire da noi e ad affogare nel tragitto non sarà più solo perché irresponsabilmente non controllano il meteo: ma anche perché, colpa su colpa, non capiscono che si può vivere felici anche in un lager.

16 Giugno 2023

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