Parola al generale

Intervista a Mauro Del Vecchio: “L’Europa nei Balcani è rimasta una illusione”

«Il fenomeno delle “piccole patrie” ancora è fortissimo. C’è un grande lavoro da svolgere»

Editoriali - di Umberto De Giovannangeli

3 Giugno 2023 alle 13:00

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Intervista a Mauro Del Vecchio: “L’Europa nei Balcani è rimasta una illusione”

Se c’è una persona che conosce ogni piega della “polveriera-Kosovo”, questa persona è il generale Mauro Del Vecchio. Del Vecchio ha guidato la Brigata Bersaglieri Garibaldi in Bosnia, Macedonia e Kosovo tra il 1997 e il 1999, nell’ambito della missione Kfor. Ai suoi ordini c’erano oltre ai soldati italiani, anche quelli spagnoli, portoghesi.

L’area di competenza era quella occidentale, comprendente le città di Pec, Dakovica, Decani e Klina. Da Generale di Corpo d’Armata ha comandato dal 2004 al 2007 il Corpo d’Armata di Reazione Rapida Italiano della Nato, e ha guidato le forze Nato in Afghanistan (Isaf) nel 2005-2006. Il 5 settembre 2007 è stato nominato al vertice del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI).

Riflettendo su quella missione di vent’anni fa, il generale Del Vecchio ebbe ad affermare: «Senza dubbio è stata una missione che è servita da esempio per tutte le missioni di stabilizzazione.  In questa circostanza sono stati messi in evidenza settori di intervento che prima non c’erano. Non si è trattato solo di una missione militare per l’assolvimento di compiti che sono propri delle Forze Armate ma è stata una missione che ha messo in campo una serie di attività per aiutare la popolazione, per la ricostruzione, per la crescita delle istituzioni che mancavano. Ed ancora: per la salvaguardia del patrimonio culturale. Tutti questi sono aspetti che hanno qualificato la missione come particolarmente importante anche in prospettiva futura. Abbiamo ricevuto riconoscimenti non solo dai kosovari che si sono visti protetti da noi nei suoi diritti basilari ma anche da parte dei serbi nel momento in cui si è trattato di difendere quelle minoranze che venivano aggredite non più dai serbi stessi ma dai kosovari».

L’Europa è tornata ad essere un teatro di guerra. L’Ucraina, e adesso torna ad esplodere il Kosovo. Ritiene corretto parlare di quest’area come di una bomba ad orologeria tutt’altro che disinnescata?

Direi di sì. La lettura complessiva che mi sento di dare non può non essere fortemente preoccupata. Quello che da oltre un anno sta accadendo in Ucraina è già di per sé un fatto gravissimo. Il nostro continente, che consideriamo la “patria” della razionalità, fosse invece oggetto di un attacco come quello scatenato dalla Russia nei confronti dell’Ucraina. A questo si aggiungono adesso le tensioni in Kosovo che riaccendono contrasti che non erano mai sopiti. Una situazione che merita un’analisi profonda, considerazioni puntuali che sappiano cogliere la drammaticità degli accadimenti per evitare che la bomba ad orologeria dei Balcani possa esplodere nuovamente.

Perché si era dato per scontato che nel Kosovo la situazione si fosse definitivamente stabilizzata?

Scontato è un termine forse eccessivo. Credo sia opportuno tornare indietro nel tempo e ripercorrere con la memoria gli eventi che segnarono i Balcani e l’Europa in generale. Quegli eventi li ho vissuti in prima persona. Prima in Macedonia, quando dal marzo ’99 abbiamo dovuto accogliere, sostenere, rifocillare le centinaia di migliaia di kosovari che fuggivano dal Kosovo perseguiti dalle forze serbe. Poi, però, questa stessa situazione di grande difficoltà e di contrasti, l’abbiamo ritrovata quando il 12 giugno del ’99 le forze della Nato sono entrate nella regione del Kosovo, insediandosi sul territorio cercando di far rispettare l’ordine in settori diversi. E in quel contesto ho imparato una lezione fondamentale: la realtà è più complessa di quanto a volte la si vuol raccontare con uno schematismo un po’ manicheo: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra. Nella mia esperienza in Kosovo, come peraltro in Macedonia e in Bosnia, ho imparato che chi è stato aggredito può poi trasformarsi in aggressore e viceversa. Pensavamo che con la messa in sicurezza della popolazione di etnia albanese, la maggioranza in Kosovo, dagli attacchi dell’esercito e delle milizie filoserbe, si fossero costruite le fondamenta per una convivenza interetnica…

Invece?

Non fu così. Ce ne accorgemmo immediatamente, già nel giugno del ’99. Le violenze continuavano ma con un senso diverso e opposto da quelle che si erano verificate tre mesi prima. Nel momento in cui la popolazione di etnia albanese rientra in Kosovo, chi diventava oggetto delle vessazioni, delle aggressioni, era la minoranza kosovara di etnia serba. C’era l’Uck, una milizia armata filoalbanese, non riconosciuta dalla comunità internazionale, che noi abbiamo dovuto denunciare, contenere e smilitarizzare, che pretendeva di esercitare nel Kosono un’autorità che nessuno gli aveva dato. L’esperienza sul campo che ho vissuto in prima persona e con funzioni operative di comando, mi fatto capire come i contrasti in tutta la regione balcanica, maturati nei secoli, fossero tutt’altro che risolti e, cosa forse ancora più importante, che quei contrasti non potevano essere compresi solo attraverso le categorie della geopolitica o della strategia militare. Dentro quell’odio c’erano ferite identitarie, vecchi regolamenti di conti tra famiglie, comunità, più vicini ad una faida che ad una guerra tradizionale. Oggi, sull’onda delle violenze degli ultimi giorni, tutti sembrano riscoprire il Kosovo e dirsi, giustamente, preoccupati. Ma i prodomi di questi fatti esistevano da tempo e toccano nervi rimasti scoperti. Ferite che il tempo non ha lenito. In particolare nella parte settentrionale del Kosovo, abitata essenzialmente dalla popolazione di etnia serba, soprattutto nell’area intorno a Mitrovica, non c’è stata quella integrazione che speravamo potesse avvenire tra le due diverse etnie, sotto l’egida delle organizzazioni internazionali e della Nato che continua, con la missione Kfor, a guida italiana, la sua opera di peacekeeping cercando di garantire sicurezza e una vita normale in quella regione.

Non crede che nei Balcani si manifesti ancora oggi, come per altri versi accade sul fronte ucraino, un deficit politico dell’Europa? Nel passato a cui faceva riferimento si era parlato speso di una inclusione dei Paesi balcanici nell’Unione Europea. Questo è avvenuto soltanto per la Croazia. Tutto il resto è ancora oggi, ad oltre vent’anni dalle guerre nella ex Jugoslavia, lettera morta.

Purtroppo è così. La voglia d’Europa è rimasta nei discorsi, nelle dichiarazioni celebrative, ma non si è tradotta in atti conseguenti. Dire che l’Europa ha tradito i Balcani è forse troppo, ma certo non si è mostrata, fino ad oggi, all’altezza delle aspettative e delle speranze di quei popoli. L’impegno dei Paesi europei e della Nato non è mai venuto a mancare, ma questo impegno non ha ancora sortito l’effetto finale sperato. So bene che non è una impresa semplice. Perché quando si parla di Kosovo, di Bosnia, più in generale dei Balcani, bisogna avere contezza della complessità storica di quella regione, dei suoi popoli. Di un senso di appartenenza che si definisce più in termini etnici, comunitari che statuali. E’ il fenomeno delle “piccole patrie” che ancora oggi, non solo nei Balcani, è presente in un mondo globalizzato. C’è un grande lavoro culturale da svolgere, oltre che politico, economico, diplomatico, soprattutto fra le giovani generazioni. Un lavoro di lunga lena. Mi lasci aggiungere che nel momento in cui la Nato ha preso il contro del Kosovo, subito dopo gli accordi di Kumanovo, il 9 giugno del 1999, una delle preoccupazioni immediati, più stringenti, che avemmo fu quella di salvaguardare tutti i luoghi di culto serbi in Kosovo, che venivano giornalmente minacciati di distruzione da parte dell’Uck. Questo per sottolineare ancora come le vendette, la rivalsa, erano fortissime e ancora oggi si annida in quella regione e in alcune frange della popolazione.

La chiusura dell’Unione Europea alla Serbia, non rischia di spingere ancora di più Belgrado nelle braccia di Mosca?

La mia risposta è affermativa. Questo rischio esiste e andrebbe scongiurato. Mi rifaccio ancora alla mia esperienza diretta. Sono stato in Kosovo, e prima ancora in Bosnia, in queste due aree calde in cui ho avuto modo di operare quale espressione dell’Italia e dell’Europa, l’impegno è stato molto forte dalla parte delle comunità locali. Siamo stati vicini alle esigenze della popolazione. Probabilmente sarebbe stata necessaria un’azione politica più pervasiva e lungimirante.

Tutto quello che sta avvenendo nel nostro vecchio continente, non ripropone con forza il tema, tante volte evocato ma mai seriamente praticato, di una difesa comune europea anche attraverso un esercito comune?

Assolutamente sì. Sono ormai più di trent’anni che se ne sta parlando. Quello di un sistema di difesa comune è, a mio avviso, un obiettivo strettamente collegato, decisamente funzionale all’esistenza stessa di una Europa unita. Una istituzione politica sovranazionale come l’Europa unita deve esprimere anzitutto linee di azione condivise da tutti gli Stati membri, ma non meno importante, devo poi avere essere in grado di esprimere una capacità operativa sul piano della difesa comune. Non per fare la guerra a qualcuno ma che rappresenti la volontà concreta del nostro continente di evitare pericolose fughe in avanti come sta accadendo oggi in Kosovo e, cosa ancor più grave, in Ucraina.

3 Giugno 2023

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