Il direttore di Domino

Intervista a Dario Fabbri: “Perché c’è il rischio di una guerra in Kosovo”

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

31 Maggio 2023 alle 15:20 - Ultimo agg. 31 Maggio 2023 alle 16:16

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Intervista a Dario Fabbri: “Perché c’è il rischio di una guerra in Kosovo”

Dario Fabbri, direttore di Domino, tra i più autorevoli analisti italiani di politica estera.

In Europa le aree di conflitto si allargano. Alla guerra in Ucraina si aggiungono gli scontri in Kosovo, che hanno riguardato anche militari italiani inquadrati nella missione Kfor. Che lettura ne dà?
In sé quello che succede in Kosovo non è direttamente legato alla guerra, nel senso che la questione kosovara o balcanica in senso allargato, esiste da qualche secolo. Il ‘900 è stato anche il secolo degli incendi nei Balcani, un lascito di questioni mai risolte. È dal ’99 che in Kosovo opera la Kfor, la forza di peacekeeping dell’Onu, che divide i kosovari albanesi da quelli serbi. Ma il contrasto non si è mai risolto, soprattutto nel nord del Kosovo. Nell’ultimo periodo si è acuita una situazione perché i serbi pretendono una sorta di autonomia dei loro comuni che non è stata loro concessa. Non si sono presentati alle elezioni e lunedì hanno voluto impedire che i sindaci eletti da una stretta minoranza, perché i kosovari sono in grande maggioranza albanesi in Kosovo ma minoranza in quei comuni, s’insediassero. Detto tutto ciò, è chiaro che la guerra d’Ucraina, pur non avendo creato queste dinamiche, soffia sul fuoco.

Perché?
I serbi sono storicamente difesi dai russi in nome di quel panslavismo, di quella pan-ortodossia che li riguarda. Non è un caso che lunedì il primo a intervenire è stato il ministro degli Esteri russo, Lavrov, con una dichiarazione che ha subito collegato gli eventi del Kosovo alla guerra in Ucraina. Eventi che Mosca utilizza per dire “guardate, caro Occidente, cara Europa, che vi possiamo complicare la vita in più dossier, su più contesti” e il Kosovo è uno di quelli. Certo è che dentro la guerra d’Ucraina questi focolai possono accendersi e moltiplicarsi. Sebbene non siano stati creati dagli eventi tra Kiev e dintorni, quegli eventi li accendono ulteriormente. Perché la Russia non ha nessun interesse a placarli, anzi soffia sul fuoco, e lo stesso governo di Belgrado in un contesto come questo prova a mettersi in gioco e adire chi ci offre di più? Cara Unione Europea tu che ci offri? Sennò noi ci buttiamo come al solito sulla Russia, che non ha le capacità finanziarie per aiutarci ma che comunque è vicina a noi da sempre, per ispirazione storica e culturale. Aggiungiamo che noi ci siamo in mezzo. A volte in Italia ce lo dimentichiamo, ma la Kfor è guidata dagli italiani e con quasi 800 uomini siamo il principale contingente all’interno di quella forza.

La guerra in Ucraina. Perché chiunque si ponga come “facilitatore” del dialogo viene impallinato dal “fuoco amico”?
La metto giù seccamente. Perché chi poi decide di queste dinamiche sono gli Stati Uniti d’America. Noi immaginiamo di possedere una capacità d’intervento che in realtà non abbiamo. Gli americani, e non da adesso, hanno comunque stabilito che l’obiettivo principale in questa guerra è difendere l’Ucraina fino ad arrivare ad una sorta di compromesso con la Russia che veda una non precisata resa stessa dei russi. Quello su cui manca chiarezza, è quale sia l’obiettivo finale. Arrivare fin dove? Sia chiaro: difendere un Paese aggredito è sacrosanto, tanto meno potevamo lasciare che la Russia si allargasse sul continente imponendo la sua di “pace” ai Paesi limitrofi. Questo è anche nel nostro interesse. Ma qual è il punto verso il quale virare e sul quale poi fermarsi? Tutto ciò è deciso ed elaborato dagli Stati Uniti. Stare in un campo come quello della Nato vuol dire questo. Il ruolo che ha un egemone, un capo cordata come possono essere gli americani, è quello di fissare il nemico. Questo facevano i romani con i loro clientes. Il nemico lo decidiamo noi, non potete deciderlo voi, questo segnalano da Washington. Per gli americani la Russia è ancora un nemico, ma qui c’è un punto fondamentale che oggi appare fantascientifico…

Vale a dire?
Tra qualche anno gli americani potrebbero aprire alla Russia. Gli americani sul piano grammaticale hanno necessità di aprire alla Russia perché la sfida è con la Cina. Hanno due nemici e tu devi comunque dividere il campo nemico. Qualche giorno fa ha festeggiato cento anni Henry Kissinger. Lui tra il 1971-72 aprì alla Cina contro l’Unione Sovietica e fu una manovra decisiva, insieme all’impantanamento in Afghanistan dei sovietici e alla corsa agli armamenti, che condusse poi al collasso di Mosca. Prima o poi gli americani in testa ce l’hanno di dover aprire alla Russia. Vorrebbero farlo con una Russia post-putiniana, che sia più presentabile dell’attuale, impresentabile, con la quale si possa ragionare e dire “state con noi che è meglio che stare con i cinesi”. Non è oggi, non è alle viste ma in testa ce l’hanno. Non stupiamoci se fra qualche anno scopriremo che nella narrazione americana i russi sono il male “minore” e il male “maggiore” sono i cinesi.

In tutto questo l’Europa?
Si mostra per ciò che è. Composta da Paesi che hanno interessi molto diversi anche su questa guerra. L’interesse polacco, come anche quello dei tre Paesi baltici che erano dentro l’Urss, è certamente molto spinto, forse più di quello degli stessi americani. Se invece prendiamo l’interesse italiano, o quello tedesco e addirittura quello francese, il discorso cambia. Per usare le parole di Macron, quello che ha combinato la Russia va condannato senza tentennamenti ma Mosca resterà in Europa, geograficamente, e con la Russia dobbiamo avere a che fare. Non possiamo permetterci, aggiunge ancora il presidente francese, di scatenare un conflitto sul nostro continente che duri decenni. Queste posizioni appaiono inconciliabili. E tra posizioni così inconciliabili, tra quella di Varsavia, quella di Berlino o di Roma, arrivano gli americani che dicono “non vi preoccupate che comunque i tempi della questione li fissiamo noi”.

Quando si parla di stabilizzazione di aree calde non si può non far riferimento al Mediterraneo. E un player centrale nel Mediterraneo è senza dubbio la Turchia, a cui Domino dedica l’ultimo, interessantissimo numero, Nel mondo dei turchi, in edicola e in libreria. Domenica la Turchia ha rieletto a presidente Recep Tayyp Erdogan. Il mondo si è prostrato ai suoi piedi. Il “sultano” ha proclamato: “È iniziato il secolo della Turchia”. Dobbiamo preoccuparci?
La Turchia è questa. Nel senso che la visione imperiale dei turchi non è mai stata realmente abbandonata nel corso del ‘900. Dopo la perdita dell’impero ottomano, a seguito della prima guerra mondiale, con Atatürk, la Turchia si era “amputata” delle province ottomane per ricostruire se stessa. Poi lentamente con la fine della guerra fredda, quando crolla uno dei loro grandi nemici, all’epoca quello principale, ovvero l’impero russo, la Turchia torna ai proclami imperiali, nel caso specifico lo fa adesso con Erdogan. Questa idea orgogliosamente imperiale, per la quale Erdogan si fa rieleggere, è nella testa di milioni e milioni di turchi, in modo trasversale, anche i più laici. Tuttavia è molto velleitaria.

Perché velleitaria?
La Turchia non ha i mezzi per realizzare quello che sogna. Erdogan stesso non ha nessun mezzo per praticare l’obiettivo. La Turchia è alla ricerca disperata di soldi. Finora ha condotto la sua politica estera facendosela pagare dal Qatar. Ovunque vediamo la Turchia impegnata, i soldi sono quasi sempre del Qatar, a partire dalla “nostra”, lo dico in senso ironico, Libia. Noi siamo in Tripolitania su uno strapuntino turco, pagato dai qatarini. Così nel Corno d’Africa, in Somalia, così in Siria dove più volte la Turchia è intervenuta militarmente, e in Siria ci rimane.

Per non parlare del Nagorno Karabakh, altro fronte su cui la Turchia è impegnata.
Ankara manca anzitutto dei soldi e poi ha una popolazione stanca. Perché questo segnalano queste elezioni. Lo stesso Kilicdaroglu, che certamente è più laico di Erdogan e vorrebbe avere un rapporto migliore con l’Occidente, anch’egli ha parlato di mondo turcofono, costruiamo una strada, era nel suo programma, che congiunga il Xinjiang turco, come lo definisce anche lui, alla Turchia, passando per tutta l’Asia centrale, posizioni non lontanissime da quelle di Erdogan. Tuttavia quelli che ha preso sono voti di una popolazione che dice “in questi anni ci siamo sovraesposti, siamo andati troppo in là anche delle nostre capacità e soprattutto possibilità”. La popolazione si sente stanca perché non vede quei grandi risultati che Erdogan aveva promesso. Questa grande potenza turca dov’è dopo tutti questi anni d’interventismo? Certo, è un attore molto rilevante nelle questioni internazionali, anche nella guerra d’Ucraina, ma Erdogan ha promesso ben altro. La Turchia è presente in molti dossier anche in quelli che ci riguardano direttamente, come la Libia e questo deve preoccuparci al tempo stesso però abbiamo contezza che la Turchia non ha i mezzi per diventare il protagonista che Erdogan e i suoi immaginano.

Il mondo è alla ricerca di una nuova governance. Ma alla fine non è l’instabilità la sua cifra con cui dovremo convivere da qui a un futuro indefinito?
È molto possibile. Non saprei dire in questo momento se andiamo verso un mondo realmente multipolare. È probabile ma non possiamo averne una certezza definitiva perché gli americani rimangono staccati dagli altri. Certo è che oggi il mondo è molto meno gestito di qualche anno fa. L’entropia, o comunque una maggiore confusione sotto il cielo per dirla con termini cinesi, è nell’ordine delle cose. L’indecisione è la cifra del presente.

31 Maggio 2023

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