Il caso dello scrittore
La destra si lagna dell’egemonia culturale della sinistra, ma dove sono i loro Calvino?
Quando Italo Calvino rifiutava la pubblicazione de Il comunista di Guido Morselli, negava al patrimonio comune del Paese la disponibilità di un libro notevole
Editoriali - di Iuri Maria Prado
Lo stracco dibattito sulla cosiddetta egemonia culturale della sinistra, non casualmente riattivato nel contrapporsi di nobilissime idealità sui grandi argomenti dello spirito nazionale, cioè i canoni di spartizione del poltronificio Rai, si sviluppa nella solita giostra di nomi negletti (Dante Alighieri compreso) posta a dimostrare alternativamente che quell’egemonia non c’è o, se c’è, è semmai dovuta a una specie di ingiusta cospirazione ostracizzante.
Ma varrebbe la pena di intendersi. Quando Italo Calvino (lo si veda ne I libri degli altri, un epistolario pubblicato se ben ricordo all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso) rifiutava la pubblicazione de Il comunista di Guido Morselli, allegando fumosamente che il manoscritto non rappresentava in modo fedele la verità delle cose del Partito comunista italiano, ebbene negava al patrimonio comune del Paese la disponibilità di un libro notevole: e lo faceva perché la pubblicazione di quel testo avrebbe imbarazzato fortemente (non certo per mancanza di verità) le gerarchie del partito e messo in luce certe movenze non proprio difendibili cui esse si abbandonavano.
Ma era censura? No: era il lavoro editoriale di un grande autore comunista che, per conto di una casa editrice legittimamente (ma neppure inflessibilmente) orientata, decideva di non rendersi responsabile della pubblicazione di un libro ritenuto scomodo. Ma se Guido Morselli non fu pubblicato allora e se solo successivamente, dopo il suo suicidio, le sue opere, tra le quali appunto Il comunista, furono rese accessibili, la responsabilità dov’è? Nell’impedimento calviniano o nell’assenza di un altro Calvino, in campo diverso o opposto, dotato dei mezzi culturali e della sensibilità intellettuale capaci di divulgare il lavoro letterario di un importante autore del Novecento?
Ho citato l’esempio di questo caso appunto perché mi sembra esemplare. Perché tu puoi ben dolerti che a sinistra non passi qualcosa, ma prima di denunciare una temperie di ostracismo dovresti domandarti come mai quella cosa non passa altrove: dovresti domandarti se il problema non stia piuttosto nella mancanza di un altrove culturale coltivato secondo ispirazioni diverse e diversamente inseminato.
Ma tu capisci che non fai molta strada se a Italo Calvino opponi Lando Buzzanca o l’evidenza destrorsa della Divina Commedia.
La realtà è che la cosiddetta egemonia culturale della sinistra si è prodotta e persevera perché quella tradizione ha sempre concepito l’azione politica in modo, per così dire, conglomerato: e produrre e divulgare e imporre cultura era parte essenziale, direi costituzionale del multiforme lavorìo di accreditamento civile e sociale di quella parte. L’erudizione democristiana era affidata a una pratica che aveva poco di comunitario, poco di sistematico, e il proletario o il piccolo borghese cattolico che pur accedeva agli studi alti o che autonomamente li coltivava non lo faceva, né era richiamato a farlo, per cambiare la società che li istituzionalizzava, ma per parteciparvi e per fare manutenzione di un ordinamento di classe, del lavoro, della produzione e insomma, appunto, della società, dopotutto accettabile anche secondo il criterio cattolico.
Non così il comunista, il quale studiava, e al quale si richiedeva di studiare, per acquisire gli strumenti buoni a inquadrare una società diversa, e diversa innanzitutto in quanto partecipata dalla diversità comunista. Sul fronte opposto, non era davvero la povertà di risorse, né tanto meno la mancata disponibilità di strutture adeguate a impedire all’altra tradizione di farsi egemone nei luoghi della produzione culturale: era l’idea che fosse la messa, non la scuola di partito, l’angelus, non l’Unità, il luogo opportuno della forgiatura sociale, la sede privilegiata in cui il cittadino, il lavoratore, l’elettore trovava le ragioni del proprio riconoscimento collettivo.
Ed era un’idea non necessariamente perdente, ma che condannava quella tradizione a farsi recessiva altrove e cioè nelle case editrici, nel cinema, nel teatro, nei giornali. La dissoluzione del sistema politico della Prima Repubblica non ha revocato quell’andazzo, anzi ormai trent’anni di legittimazione al potere della non-sinistra hanno dimostrato che l’avversa egemonia culturale trova causa in rinnovate e moltiplicate mancanze di quelli che lamentano di subirla o – peggio – la rinnegano chiamando a ridicola testimonianza la solita serqua di nomi che comporrebbe il profilo equiparabile della “cultura di destra”. Attenzione.
È ben vero che una patente – tanto per intendersi – di sinistra può aver consentito pubblicazioni immeritevoli e collocazioni di potere senza addentellato di merito, così come è vero che la mancanza di quella licenza può aver ostacolato ingiustamente le possibilità di diffusione di qualche contributo degnissimo e pregiudicato carriere altrimenti spianate.
Ma se alla pervasività di sinistra di cui ti lagni contrapponi l’esclusività di Drive In e del talk show populista vuol dire che fai una scelta, e hai poco da recriminare quando ti prendono in giro perché lo scrutinio del candidato cade sull’appropriatezza da telecamera del tono di azzurro della camicia anziché su questa cosa noiosa che è l’aver letto qualche libro. Poi alla rinfusa butti lì D’Annunzio e Longanesi e Sironi, ma intanto ti tieni il giovanotto che scambia l’imperatore romano per il presidente jugoslavo. L’egemonia culturale si ottiene, si esercita, si combatte, si contesta facendo cultura: facendola, non disprezzandola.