I piani sovranisti

No al turno unico per le elezioni, è solo un mezzuccio della destra

Politica - di Salvatore Curreri

31 Maggio 2023 alle 17:30

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No al turno unico per le elezioni, è solo un mezzuccio della destra

I dati delle elezioni amministrative di domenica scorsa costituiscono un ottimo spunto per riflettere sulla querelle tra elezione a turno unico o a doppio turno. Querelle innescata dalle dichiarazioni polemiche del ministro Calderoli che, evidentemente amante delle metafore animali, ha definito il secondo turno inevitabilmente condizionato dal “mercato delle vacche” che si scatenerebbe dopo il primo turno in spregio alla volontà degli elettori.

Dichiarazioni che, ricordiamo, hanno preso spunto dai risultati elettorali del comune di Udine, dove lo scorso 18 aprile è stato eletto Sindaco al secondo turno il candidato del centrosinistra, ribaltando l’esito del primo turno e per di più ottenendo al secondo turno meno voti (18.576) rispetto a quelli raccolti dal candidato sindaco di centro destra al primo turno (19.524). Peraltro, interrogarsi sull’elezione a turno unico o doppio può essere utile anche in una prospettiva più ampia di quella delle elezioni comunali. Certo, può sembrare prematuro chiederselo oggi visto che, alla luce dell’appena avviato ennesimo tentativo di riforma istituzionale, non sappiamo né se il presidente della Repubblica o il presidente del Consiglio saranno eletti direttamente dai cittadini, né eventualmente chi dei due lo sarà. Eppure non pare ozioso porre la questione sin d’ora, e non solo perché, come si sa, il diavolo si nasconde in quello che solo apparentemente potrebbe sembrare un dettaglio.

È, infatti, evidente come la scelta tra turno unico e doppio turno avrebbe immediate e decisive conseguenze, determinando di fatto l’esito della votazione in un contesto politico in cui, come le ultime elezioni nazionali non hanno mancato di confermare, il centrodestra, presentandosi unito fin dal primo turno, ha più possibilità di vincere in prima battuta rispetto al centrosinistra che, al contrario, riesce solo a compattarsi e a vincere per lo più al secondo turno. La scelta tra turno unico e doppio turno non è quindi asettica, a ulteriore riprova di come, quando manca il cosiddetto velo d’ignoranza, le riforme istituzionali sono profondamente condizionate del sistema politico in cui s’inseriscono e vengono valutate anche in base ai vantaggi e agli svantaggi che esse provocherebbero alla propria parte politica.

Peraltro, che si tratti di una scelta che ha risposto nel tempo ad esigenze politiche diverse lo dimostra il fatto che noi eleggiamo (dal 1993) a doppio turno i Sindaci dei Comuni con più di 15mila abitanti (ovviamente se nessuno dei candidati ottenga al primo turno la maggioranza dei voti validi) mentre invece (dal 1999) eleggiamo a turno unico i Presidenti di Regione. Ed è proprio sull’elezione dei sindaci che oggi il centrodestra vorrebbe intervenire, prendendo spunto come detto dai risultati di Udine. Tentando, infatti, un blitz parlamentare durante l’esame di altra proposta di legge (poi approvata che oggi consente di ritenere valide le elezioni nei Comuni con meno di 15mila abitanti in cui si presenta una sola lista anche se non vi partecipa la maggioranza degli elettori e tale lista non ottiene più del 50% dei voti), la maggioranza di centrodestra, prima in commissione Affari costituzionali al Senato e poi in Aula, ha presentato un emendamento per diminuire dal 50 al 40% il quorum per essere eletti sindaco al primo turno nei Comuni con più di 15mila abitanti. Manovra finora sventata ma che a quanto pare il centrodestra intende riproporre.

Ma è proprio vero che il turno unico sarebbe di per sé più democratico rispetto al doppio turno, perché consentirebbe agli elettori di poter scegliere direttamente il vertice dell’esecutivo, evitando accordi più o meno sottobanco che potrebbero condizionare l’esito del secondo turno? No, per due ragioni. In primo luogo, non è vero che al secondo turno di ballottaggio i votanti sono molti meno rispetto al primo turno. Se si consultano i dati delle elezioni amministrative del 2021, peraltro in piena pandemia, si può notare che, ad esempio, a Torino al primo turno hanno votato 397mila elettori e al secondo 378mila; a Milano 550mila al primo e 521mila al secondo; a Bologna 179mila al primo e 159mila al secondo. Il dato trova conferma nelle elezioni di domenica scorsa.

Se si prendono in considerazione i maggiori Comuni ci si accorge che gli scostamenti percentuali dei votanti rispetto al primo turno non sono sempre elevati (Pisa -0,09, Vicenza -1,42, Ancona -3,19, Siena -6,86), tranne Massa (-8,95), Terni (-13,55) e Brindisi (-13,86). Ciò trova spiegazione in parte nel fatto che gli elettori sono più indotti a partecipare al primo turno perché trascinati dalla competizione tra i candidati delle liste per l’elezione del Consiglio comunale.

In secondo luogo, non si possono comparare due competizioni che rispondono a logiche diverse. Nel primo turno, infatti, l’elettore vota (in unica scheda) per la lista e il candidato sindaco del suo partito, in un’ottica che tende a far sì che vi sia corrispondenza politica tra il sindaco e la maggioranza in Consiglio. Per essere eletti sindaco non basta aver preso più voti rispetti agli altri candidati (maggioranza relativa) ma occorre ottenere la maggioranza dei voti validi, per dimostrare di avere il consenso della maggior parte dei cittadini. Se questo non accade, si va al secondo turno di ballottaggio proprio per ottenere tale maggioranza. Secondo turno che premia il candidato che riesce non solo a confermare il consenso ottenuto nel primo (dimostrando così che esso non era solo indotto dai voti dei candidati delle liste che lo sostengono) ma anche a estenderlo agli elettori che hanno votato al primo turno per un altro candidato, escluso dal ballottaggio.

La capacità di confermare il proprio elettorato del primo turno unitamente alla capacità di attrarre gli elettori che in quell’occasione non l’hanno votato legittima dunque, anche politicamente, l’elezione del Sindaco al secondo turno. Il che è esattamente accaduto nel secondo turno di ballottaggio di domenica scorsa, dove i candidati che hanno vinto al primo turno, nonostante il numero dei votanti più o meno in calo, hanno aumentato i loro voti rispetto al primo turno: così a Siena (+4.296), Massa (+3.847), Terni (+2.385), Ancona (+1.636), Vicenza (+1.520) e Pisa (+1.051).

Anche nell’unica città (Terni) dove ha vinto il candidato sconfitto al primo turno, questi ha preso più voti (19.748) del candidato vincente al primo turno (17.363). L’unica eccezione è Brindisi (-1.119) dove però come detto si è registrato il maggiore crollo in percentuale dell’affluenza elettorale. Non è dunque vero che un candidato che vince al secondo turno costituisca una violazione del principio democratico rispetto a uno che vince al primo.

Anzi, si potrebbe concludere che lo sia di più perché, grazie al ballottaggio, siamo sicuri che esso ottenga la maggioranza assoluta – anziché la maggiore minoranza – del voto dei cittadini, riflettendo meglio le preferenze complessive del corpo elettorale. Certo comunque è che mutare il sistema d’elezione dei sindaci, riducendo dal 50 al 40% il quorum richiesto per vincere al primo turno, per quanto ammantata da propositi “democratici”, non sarebbe altro che l’ennesima riforma proposta per mera convenienza di parte. Non il migliore viatico per l’appena avviato processo di revisione istituzionale.

31 Maggio 2023

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