La strage 30 anni fa
Attentato di via dei Georgofili, a Firenze per la prima volta la mafia sparò nel mucchio
Politica - di David Romoli
Nella notte tra il 26 e il 27 maggio di trent’anni fa, 1993, Cosa nostra alzò il tiro più di quanto avesse mai fatto in precedenza. Portò l’attacco allo Stato nel continente, adottò la strategia dello stragismo indiscriminato, prese di mira non solo persone e cose ma i beni culturali del Paese, la sua ricchezza. La bomba esplose in via dei Georgofili a Firenze, dietro gli Uffizi, a un passo dall’Accademia dei Georgofili, poco dopo l’una di notte. Uccise l’intera famiglia del guardiano dell’accademia, incluse le due figlie, 9 anni la più grande, appena 50 giorni la piccola. Ci rimise la vita anche uno studente di 22 anni, nell’incendio che coinvolse le abitazioni circostanti. I danni al patrimonio culturale furono ingenti: crollò la Torre dei Pulci, fu danneggiato più o meno gravemente un quarto delle opere presenti nella Galleria degli Uffizi.
L’ordigno era stato preparato a Palermo da Gaspare Spatuzza, il bombarolo di Cosa nostra, uomo di fiducia dei fratelli Graviano, e di lì portato a Prato. Il gruppo di attentatori, oltre che da Spatuzza, era composto da Cosimo Lo Nigro, Salvatore Benigno e Francesco Giuliano, tutti “uomini d’onore” dei mandamenti di Brancaccio, quello dei Graviano, e di Corso dei Mille. La sera del 26 maggio Giuliano e Spatuzza rubarono un furgone Fiat Fiorino, lo spostarono a Prato per caricare l’esplosivo, nella notte fu parcheggiato in via dei Georgofili da Giuliano e Lo Nigro che lo fecero poi esplodere a tarda notte. Ogni strage ha i suoi misteri, veri o presunti che siano: quello di via dei Georgofili sarebbe costituito da un centinaio di chili di esplosivo T4, tra i più deflagranti, che sarebbe stato aggiunto ai circa 150 kg trasportati dalla Sicilia da mani sconosciute.
Non era il primo atto nella strategia d’attacco decisa dall’ala dura dei corleonesi, quella che faceva capo a Luchino Bagarella, dopo l’arresto di Totò Riina, il 15 gennaio di quello stesso anno. La sera del 14 maggio una Fiat Uno rubata e imbottita d’esplosivo era stata fatta esplodere in via Fauro a Roma, molto vicino agli studi dove veniva registrato il Maurizio Costanzo Show. A salvare il conduttore e la moglie, Maria De Filippi, era stata la decisione di lasciare gli studi su una macchina diversa dal solito. A premere il fatale pulsante erano i soliti Lo Nigro e Benigno che restarono spiazzati dalla macchina sconosciuta. Benigno premette il pulsante con un provvidenziale attimo di ritardo. Costanzo e De Filippi rimasero illesi, 24 persone rimasero invece ferite.
Il tentativo di assassinare il più popolare conduttore della tv italiana nel cuore della capitale, lontano da Palermo, era un segnale chiaro di quanto si fosse alzato il livello dello scontro. Costanzo prendeva di mira continuamente Cosa nostra: la decisione di toglierlo di mezzo poteva ancora sembrare consona allo stile della Cosa nostra dominata dai bellicosi e spietati corleonesi. Via dei Georgofili segnava invece un passo in avanti drastico sulla strada della guerra totale. Per la prima volta Cosa nostra sparava nel mucchio, falciava non magistrati, poliziotti o rivali interni ma passanti qualsiasi. Sceglieva lo stragismo.
L’attentato fu rivendicato, come tutti quelli di Cosa nostra in quella fase, dalla fantomatica “Falange Armata”. Nessuno, dal premier Carlo Azeglio Ciampi, il primo presidente del consiglio “tecnico” nella storia della Repubblica e capo di un governo costituitosi meno di un mese prima, al ministro degli Interni Nicola Mancino, ebbe mai dubbi sulla matrice mafiosa della strage anche se inevitabilmente, nell’ultimo anno della prima Repubblica, in una fase segnata da massima incertezza e altrettanto elevato rischio, il sospetto di commistioni con soggetti diversi dalle cosche dell’isola era inevitabile.
Il 27 luglio il gruppo dinamitardo colpì ancora, stavolta con una prova di forza anche più temibile perché prese di mira contemporaneamente le due principali città italiane, Roma e Milano. L’attentato più grave fu quello di via Palestro, nel capoluogo lombardo. La sera del 27 luglio i vigili del fuoco intervennero dopo che un agente aveva segnalato che da una Fiat Uno parcheggiata di fronte al Padiglione d’arte contemporanea usciva del fumo. L’autobomba esplose mentre i vigili erano al lavoro: uccise due di loro, un agente e un immigrato che dormiva su una panchina lì vicino, danneggiò le opere del Padiglione che però se la videro anche peggio quando, poche ore dopo, esplose anche una sacca di gas formatasi perché il crollo precedente aveva spezzato le tubature. Anche qui non manca il mistero di turno. Chi materialmente abbia portato in loco l’autobomba e provocato il botto è a tutt’oggi ignoto. I bombaroli in trasferta avevano preparato tutto prima di spostarsi a Roma ma la fase esecutiva non la gestirono loro. Un testimone oculare vide uscire dalla macchina esplosiva una bionda elegante. Possibile che Cosa nostra si fosse affidata a una femmina?
A Roma non ci furono vittime ma il livello degli obiettivi colpiti bastava e avanzava. I picciotti rubarono tre Fiat Uno il 28 luglio. Lo Nigro lasciò la prima, imbottita d’esplosivo, di fronte alla chiesa di San Giorgio in Velabro. Spatuzza e Giuliano parcheggiarono la seconda autobomba di fronte a San Giovanni in Laterano. Poi se ne andarono tutti insieme sulla terza Fiat, guidata da Benigno. Esplosero a distanza di 4 minuti l’una dall’altra, ferirono 24 persone e danneggiarono seriamente le due chiese. Ma il vero effetto esplosivo fu psicologico dal momento che erano state colpite due delle chiese più famose e antiche di Roma.
Prima di passare all’azione, nel pomeriggio, Spatuzza aveva inviato due lettere vergate da Graviano, indirizzate al Corriere della Sera e al Messaggero. Promettevano sfracelli. Minacciavano di distruggere “centinaia di vite umane”. Non era solo un modo dire. Ci provarono davvero pochi mesi dopo allo stadio Olimpico di Roma il 23 gennaio 1994, una domenica. L’autobomba, in quel caso, avrebbe dovuto esplodere alla fine della partita, mentre passava un furgone pieno di carabinieri di stanza. Con la folla in uscita dallo stadio le vittime, con e senza divisa, sarebbero state innumerevoli. Il telecomando non funzionò, la strage più efferata fu evitata da un caso miracoloso.
Poi, all’improvviso tutto si fermò. Le bombe smisero di esplodere. Difficile dire cosa fosse cambiato. Qual era l’obiettivo di Cosa nostra? Probabilmente si trattava di quello che Giovanni Bianconi definisce “un dialogo a suon di bombe” finalizzato a ottenere l’abrogazione o l’allentamento del 41 bis, l’allora neonato regime di carcere duro per i mafiosi. Nel caos di quell’anno è possibile che si siano intrecciate anche altre mire, miraggi golpisti inclusi. Ma probabilmente quel che decretò la fine dello stragismo mafioso fu la sconfitta dei duri, Bagarella e i Graviano, arrestati e messi in scacco da quella parte di Cosa nostra che aveva subìto senza crederci troppo la guerra totale decisa da Totò “u Curtu” e proseguita dal feroce cognato Leoluca Bagarella. E se c’era un boss che da quella strategia proprio non era convinto era proprio l’uomo chiamato “u Tratturi”, il trattore: Bernardo Provenzano.