L'editoriale del 24/05/1992
“Assassinato Falcone, e adesso le parole sono gusci vuoti”: l’editoriale de L’Unità dopo la strage di Capaci
Archivio Unità - di Luciano Violante
Il 23 maggio del 1992 in un attentato a Capaci, Palermo, venne ucciso il giudice Giovanni Falcone. Alle 17:58 oltre cinquecento chili di tritolo vennero fatti esplodere in una galleria scavata sotto il chilometro quinto dell’autostrada A29, nel tratto tra Palermo e l’aeroporto della città a Punta Raisi. Nella strage morivano anche la magistrato e moglie di Falcone, Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. L’Unità il giorno dopo, il 24 maggio 2023, dedicava ampio spazio all’attentato e in prima pagina pubblicava un editoriale scritto da Luciano Violante dal titolo: “E adesso le parole sono gusci vuoti”
Pezzi di strada percorsi insieme. Poi divisi. Poi ancora insieme. Di nuovo divisi. Qualche tentativo di parlarsi, reciproco e incerto. Adesso le parole sono gusci vuoti. Falcone è stato ucciso. I capi di mafia assolti. Il codice è sempre quello. Il superprocuratore non è nominato: era urgente, ci avevano detto. La legge sul riciclaggio non funziona, ma verranno le circolari. Giovanni e sua moglie e la sua scorta stanno su un letto di marmo. L’Italia senza presidente; il governo dimissionario; il maggiore partito senza segretario. Ci saranno parole solenni. Qualcuno cadrà nella trappola delle ritorsioni. Di chi è la colpa? Perché? Era solo; era utilizzato dalla politica; voleva utilizzare la politica.
Ma nelle strade è tornato il Convitato di pietra. Quello dei treni di Bologna e di Firenze. Quello delle piazze insanguinate. Quello di via Fani. Quello che uccise Mattarella e La Torre. Non deve cambiare nulla in questo paese. E quando qualcosa può cambiare, il Convitato decide di fermare tutto, perché può farlo, uccidente. Perché qualcuno, una volta, gli dette il primo ordine; ed il secondo; ed il terzo. Poi non c’è stato bisogno di altro. Capisce da solo. Sa quando, sa dove, sa chi. Ieri, l’uomo simbolo della democrazia contro la mafia.
C’è la politica dietro il cadavere di Giovanni Falcone. È mafia, ma non è più solo mafia. Non è più solo la mano omicida. Un atroce assassinio politico, come quello di Moro.
I leader fotografati. Qualcuno esaminava quel tratto di autostrada. Le interviste a ripetizione, le osservazioni sulla parola o sul silenzio del grande leader. Qualcuno metteva una tonnellata di esplosivo nel cunicolo sotto l’autostrada. Tecniche di intesa sottile a Roma. A Palermo qualcuno innestava il timer.
A Roma si perdeva tempo? Non è così. Il presidente della Repubblica oggi vuol dire un progetto, una via di uscita per la crisi, una possibilità di futuro o un’altra tutta diversa. C’è cialtroneria nella politica; ma c’è anche la tenace ricerca di una via per la vita degli uomini. La decisione politica è tanto più difficile quanto più la politica è debole.
Ma quanti lo capiranno? Quanti penseranno ad un agitarsi sterile; alla inutilità della democrazia? E qualcuno sorriderà a Palermo, o a Roma, o a Milano, o a Zurigo, dove hanno deciso che per quella morte era arrivato il momento.
Mi chiedo, da amico di questa vittima e da politico. Riusciamo ad essere diversi? A non ingaglioffirci? A capire che cosa sta succedendo? A capire che la mafia è uno dei cardini dei padrini nel vecchio sistema che non vuole mollare. Capire che abbiamo il dovere tragico di cambiare, di fare presto. Di creare un’altra Italia, dei doveri e delle responsabilità.
Non servono parole solenni. Non servono abbracci ecumenici. Serve una feroce volontà di riscatto. Per Giovanni e per quei tre ragazzi della scorta i cui nomi tra poco nessuno ricorderà, ma che sono il segno più vivo e più atroce di una Italia pulita.