L'intervista alla politologa

“Impediamo alla destra di trasformare la cittadinanza in identità etnica”, parla Nadia Urbinati

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

20 Maggio 2023 alle 12:30 - Ultimo agg. 20 Maggio 2023 alle 12:32

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“Impediamo alla destra di trasformare la cittadinanza in identità etnica”, parla Nadia Urbinati

Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla Columbia University di New York.

Uno dei concetti forti del pensiero gramsciano è quello di “rivoluzione passiva”. Come declinarlo oggi in una fase in cui l’Italia ha il governo più di destra della storia repubblicana?
La condizione di “rivoluzione passiva” è quella in cui oggi ci troviamo. Nel senso che le forze sociali che dovrebbero essere, secondo una lettura marxiana o di sinistra, alleate naturali delle forze progressiste, sono in realtà quelle che o si ritirano dalla vita attiva, anche elettorale, o danno il loro consenso alle forze di destra. Dovremmo interrogarci, e l’Unità potrebbe essere luogo e strumento di questa ricerca, sul perché la destra riesce ad avere questa capacità attrattiva rovesciando la dimensione riformatrice, se non rivoluzionaria, che dovrebbero avere queste classi. Questo è un lungo percorso che ha portato il nostro Paese se non ad azzerare di certo ad abbassare moltissimo il livello di differenza tra le posizioni di sinistra e di destra, cosicché in questo momento la debolezza di una parte si paga in maniera diretta, immediata.

Perché?
Perché non può essere uguale ad un’altra. In questa democrazia elettorale dove si allarga la dimensione mediana, questo ha penalizzato la sinistra, non certo la destra. L’omologazione non paga. Quel che erano valori progressivi, pensiamo alla solidarietà o all’uso della nazione o del popolo per una politica di emancipazione, sono finiti per diventare strumenti usati per fare esattamente l’opposto. Sembra che oggi i più avanzati siano coloro che esprimono idee di destra, sia perché esaltano la dimensione nazionale, sia perché si presentano come coloro che meglio di altri rappresentano gli interessi popolari. Questa è la situazione paradossale in cui ci troviamo, per cui chi è in posizione reazionaria sembra esprimere una posizione più attraente rispetto a quella di chi dovrebbe risultare più attraente. C’è un rovesciamento delle parti.

E questo chiama direttamente in causa l’idea di una sinistra che sia portatrice di un pensiero, di un punto di vista globale rispetto alla realtà esistente?
Il problema vero, che spiega molto la situazione di impasse in cui versiamo, è che in questo momento non c’è, né nella dimensione del pensiero né in quella della progettualità politica, una possibile alternativa alla società globale economica che noi abbiamo. Non c’è una visione alternativa. Non c’è perché nessuna forza è in grado di esprimerla. Non c’è più un’utopia capace di essere attrattiva, trascinante. Si naviga nella stessa barca. Le uniche prospettive che si delineano sono quelle di aggiustamento, di correzione, all’interno dello Stato-nazione, dei conti in modo che quelli che sono in una posizione svantaggiata non abbiano un assoluto svantaggio. Questo è il massimo. In questo momento non ci sono dimensioni rivoluzionarie e nemmeno utopiche. In questo la sinistra dovrebbe impegnarsi moltissimo, perché è molto più complicato tenere in piedi un discorso riformatore e di sinistra in questa dimensione asfittica di alternative.

Per tornare ad alcune categorie forti del pensiero di Gramsci. Una di queste è riferirsi al Partito come “intellettuale collettivo”. Dirlo oggi è una eresia?
Gramsci opera, in carcere, in un periodo in qualche modo non dissimile al nostro. Stando in carcere, avendo perso tutte le battaglie, era per lui complicato il dover pensare ad un mondo diverso da quello. Fece uno sforzo notevole per non essere imprigionato nell’idea che non ci fosse un’alternativa. Penso che sia interessante anche dal punto di vista esistenziale capire il suo ruolo. È vero che Gramsci aveva una filosofia di riferimento, quella marxista, che nella sua realizzazione politica si era dimostrata fallimentare. Gramsci non era un fatalista e non pensava che le cose sarebbero dovuto andare in quel modo. Occorreva costruirle e per farlo si rivolte ad intellettuale collettivo, che è il Partito. Capisce che le cose non vengono se non si creano. Ecco perché cercava di capire, e pensava che fosse possibile, darsi degli obiettivi che in quel periodo erano realistici. Gramsci aveva una visione da un lato di possibilità e dall’altro di realismo. Quali sono gli obiettivi possibili che ci possiamo dare oggi, cosa possiamo chiedere a noi stessi oggi. E lui rispose possiamo chiedere a noi stessi di costruire una operatività collettiva, un principe collettivo capace di fare quello che nessuna rivoluzione per decreto marxista può venire e nessun leader ha la capacità di trascinare le masse. Gramsci non era un leaderista individualista. Quindi il collettivo. Solo questo può dare a persone che, con un linguaggio di oggi, vivono in una società democratica a base individualista, la possibilità di darsi degli obiettivi raggiungibili. In quella fase in cui Gramsci scrive ed opera, c’erano attori collettivi e totali e non era impossibile, fuori luogo e tempo, pensare ad un altro attore collettivo totale. Oggi noi non possiamo né pensare ad attori collettivi totali né essere certi che questi abbiano la capacità di usare tutti gli strumenti, le forze all’interno di uno Stato-nazione, anche perché gli Stati-nazione sono diventati debolissimi e non possono fare quello che vogliono. Noi ci troviamo in una fase in cui dovremmo chiederci cosa Gramsci avrebbe, in questo momento, proposto a quell’attore collettivo che oggi non ha più quello stesso spessore, non può più avere la stessa caratteristica. Tuttavia occorre una forma partito. Non di quel tipo, ma occorre.

Oggi alla guida del Partito democratico c’è Elly Schlein. Un punto forte del suo pensiero politico è quello molto presente nella cultura “liberal” e nella politologia Usa. Il concetto di intersezionalità. Professoressa Urbinati reputa possibile una traduzione nel nostro Paese di questa teoria e prassi dell’intersezionalità?
Elly Schlein come leader è figlia del suo tempo. È una leader che vive nell’audience. Questo è il nostro tempo. Non possiamo chiederle qualcosa di diverso. Possiamo chiederle di fare al meglio quello che è il modo d’essere dell’agire politico dei leader in questa fase di democrazia dell’audience. E questo Elly Schlein lo fa bene. Lei ha cominciato con i diritti i civili, per poi procedere verso i diritti sociali e quelli culturali. In pratica si pone all’interno del discorso dei diritti, quello che Norberto Bobbio direbbe diritti di prima, seconda e terza generazione. Civili, sociali, ecologici si direbbe oggi. Schlein si pone all’interno di questa dimensione. L’intersezionalità è qualcosa di un po’ diverso. Perché ha a che fare con posizioni identitarie.

E in Italia?
Da noi non sembra che questa sia la caratteristica. Anche perché le nostre identità nei fatti sono poche e definite. Nemmeno quella di genere è una identità così forse ed esistenzialmente definita come lo è negli Stati Uniti. Noi, per esempio, non abbiamo identità di razza, non abbiamo identità multiculturale. Siamo ancora nella dimensione della cittadinanza democratica, abbastanza uniforme. Non c’è uno Stato multietnico. Quello che Schlein cerca di fare, semmai, è d’impedire la trasformazione di questa cittadinanza in una identità etnica, come sta facendo la destra. Trasformare la nazione in una etnia identitaria. Occorre evitare questo. E per farlo usare l’”arma” dei diritti, come lei sta facendo. In pratica, Elly Schlein sta portando avanti un discorso tradizionalmente liberaldemocratico, anti identitario, nel senso di anti nazionalista, e fondato sui diritti. Francamento non capisco quando la criticano di essere troppo radicale. Lei è all’interno della visione più liberaldemocratica che si possa avere in Occidente in questo momento.

20 Maggio 2023

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