L'intervista al compagno Akel

“Per l’Ucraina serve una strategia di uscita dalla guerra che non si affidi al riarmo permanente”, parla Achille Occhetto

Editoriali - di Umberto De Giovannangeli - 18 Maggio 2023

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“Per l’Ucraina serve una strategia di uscita dalla guerra che non si affidi al riarmo permanente”, parla Achille Occhetto

Il compagno “Akel”, come lo ribattezzò suo padre Adolfo. Un giornalista curioso scoprì che era il nome di un navigatore danese di origine vichinga. E “Akel” fu anche per i suoi compagni nei primi soggiorni a Torino e Milano. L’ultimo segretario del Pci. L’uomo della Svolta della Bolognina. Achille Occhetto. A 87 anni, il compagno “Akel” frequenta il futuro e non ha tempo per i rimpianti. A Claudio Bozza del Corriere della Sera confidò: “Una delle mie canzoni preferite è Non, je ne regrette di Edith Piaf. No, non rimpiango niente”.

E a quanti danno la sinistra per morta e sepolta, “Akel” dice: “Ho un sogno, vedere rinascere la sinistra, con Elly Schlein”. Anche se oggi ci racconta “in gioco non sono le sorti della sinistra o della destra, né di questo o di quello Stato: sono in gioco le sorti dell’umanità. Solo dei leader degni di questo nome potrebbero capire che il tema di partenza di una Conferenza sulla sicurezza comune dovrebbe essere quello della comune difesa dal baratro che ci attende. Se non lo capiscono i “grandi della terra”, occorre che i popoli facciano sentire la loro voce attraverso la paziente costruzione di un nuovo, più ampio e unitario movimento per la pace e la salvezza dell’umanità”.

La guerra d’Ucraina è entrata nel suo secondo anno Una guerra di logoramento di cui non s’intravvede la fine. Tutti o quasi parlano di pace. Ma come declinarla se non si vuole evocarla solo per salvarsi la coscienza?
L’esigenza di muovere con maggiore decisione nella direzione del cessate- il-fuoco e dell’apertura delle trattative di pace va perseguita con la consapevolezza della fase nuova in cui è entrato il conflitto, cambiando anche qualche cosa rispetto alle posizioni assunte da ciascuno in precedenza.

Vale a dire?
Subito dopo l’aggressione russa all’Ucraina, ho sostenuto pubblicamente di essere per la messa al bando di tutte le armi di distruzione di massa e per la ripresa delle trattative per il disarmo bilanciato, ma che, tuttavia, questo non si poteva fare incominciando col disarmare il Paese invaso, negandogli il necessario sostegno per “difendersi” e non già per sconfiggere definitivamente la Russia. Tuttavia capisco bene che quegli obiettivi di fondo verso il disarmo generale, pur non dovendo essere abbandonati, sono difficilmente realizzabili nel momento in cui la parola è affidata alle armi, nel fuoco di un conflitto di dimensioni geopolitiche incalcolabili. Tuttavia la priorità vitale è continuare a insistere per mantenere aperta la strada per la trattativa. Ma oggi, quando la guerra è entrata nel secondo anno, avverto l’impellenza di un impegno volto a indurre tutti a fare un passo avanti su un terreno che sarà decisivo al fine di delineare la prospettiva di un nuovo ordine internazionale.

Da cosa partire?
Dalla realtà sul terreno. È ormai del tutto evidente che i due principali contendenti sul campo, l’aggressore e l’aggredito, affidano l’apertura al cessate-il-fuoco alla fissazione dei rapporti di forza a loro più favorevoli sul campo di battaglia. Gli ucraini collocando l’asticella al ritiro dei russi alla situazione precedente l’aggressione. Atteggiamento del tutto legittimo, sul piano del diritto internazionale, da parte di chi è stato aggredito, a patto che si limiti “solo” all’aspirazione a liberare il proprio Paese. Vladimir Putin, da parte sua, ha fatto dichiarare ai suoi, nel cuore della cosiddetta “iniziativa di pace” della Cina, che al momento della decisione del cessate-il-fuoco, i territori illegalmente occupati dovrebbero essere definitivamente considerati territori russi, facendo così coincidere di fatto l’inizio della trattativa con la sua conclusione. Un mostro diplomatico. Questa è la situazione nella quale le forze della pace e l’iniziativa dei popoli devono operare. Ritengo che sia privo di immediati effetti positivi, sul piano squisitamente diplomatico, chiedere al Governo italiano di abbandonare improvvisamente gli impegni già assunti per il prossimo anno dentro “un’alleanza militare” che nessuna compagine governativa, di destra o di sinistra, ha finora abbandonato. Lascio a tutti noi immaginare la situazione disastrosa in cui si verrebbe a trovare, non la presidente Meloni, ma l’Italia. L’eventuale disimpegno nell’invio delle armi, già deciso dal Parlamento, in questo 2023 avrebbe, oltretutto, scarsa rilevanza sul piano diplomatico e militare. Anche se nessuno può nascondersi il fatto che senza la nuova e più efficace contraerea l’altro ieri Kiev sarebbe stata trasformata in una ecatombe sotto il tiro di formidabili missili ultrasonici.

Non c’è nient’altro da fare che inviare le armi?
Assolutamente no. È legittimo incominciare a pensare a una strategia di uscita dalla guerra di più ampio respiro e che non si affida ad una permanente ipotesi di riarmo, come sembra apparire dalla incredibile e stravagante idea di inserire le armi nella Next generation Eu. Nello stesso tempo non credo che sia realistico affidarsi esclusivamentealla ventilata controffensiva ucraina. Anche in considerazione del fatto che molti osservatori temono che la battaglia sarà lunga, drammatica e con esiti molto più incerti del previsto. Potremo assistere al più sanguinoso scontro visto in Europa dal 1945, che coinvolgerà almeno 300 mila militari. Allora, che fare? Mi sembra molto difficile che i movimenti pacifisti possano entrare nel merito delle ipotetiche mediazioni diplomatiche riguardanti le controversie territoriali. Tuttavia possono impegnarsi sui più generali temi atti a farci uscire dal conflitto con una nuova visione dell’ordine mondiale. Occorrerebbe, a mio avviso, spostare il confronto in Europa e con il governo su un altro terreno. Indicando almeno i criteri, per un percorso parallelo di attività diplomatica, volto a porre fine a questa guerra dando voce ai negoziati. Senza sottovalutare la funzione di mediazione del Pontefice, che può in ogni caso facilitare un percorso negoziale costruttivo. Avendo sempre presente che differente è il linguaggio di una alta autorità spirituale da quello della politica direttamente impegnata nei “conflitti”.

Ma quali negoziati?
L’esito di questa guerra non verterà solo sugli effetti territoriali riguardanti il teatro del conflitto in atto, ma coinvolgeranno gli assetti geopolitici del Pianeta e la stessa visione del nuovo ordine mondiale. Ne ha parlato la Cina, in uno dei suoi dodici punti. Non ci fidiamo delle sue reali intenzioni? Facciamo bene, ma non possiamo fermarci qui. L’Occidente non può limitarsi a sospettare. Deve rilanciare, da parte sua, il tema centrale di una sicurezza comune che tenga conto delle reciproche preoccupazioni. È su questo terreno, che riterrei importante chiedere a tutte le sinistre di mettere almeno per un anno tra parentesi il tema delle forniture militari già decise, per fare un passo avanti al fine di favorire il massimo di unità possibile sulla comune visione del nuovo ordine mondiale, entro il quale collocare anche la “pace giusta” per l’Ucraina e la percezione della propria sicurezza da parte di tutti gli attori internazionali. E ciò è tanto più vitale per l’Europa. Per questo ritengo sbagliato il “mantra” secondo il quale la via della pace può essere trovata esclusivamente dai tre grandi imperi dominanti (Usa, Cina e Russia). Certo l’Europa non c’è, perché non esiste un’Europa politica. Ma non è un destino immutabile. Ci si deve battere perché l’Europa incominci ad agire, rivendicando apertamente il fatto che questa è prima di tutto una guerra europea, una guerra pagata, sul campo di battaglia, con il sangue di uomini, donne e bambini europei e dalla sofferenza e i sacrifici imposti dalla stessa guerra, principalmente, alle popolazioni d’Europa. Di fronte a questa realtà non ci si può voltare dall’altra parte, fare i sepolcri imbiancati, delegare le sorti del nostro continente ad altri, per quanto più realistico possa sembrare. Se l’Europa non farà sentire la propria voce, la tregua, se ci sarà, sarà contornata da armistizi tattici, da soluzioni coreane, da accordi di Minsk continuamente violati da tutti. È tutto ciò nel quadro della sostanziale persistenza dell’attuale “disordine internazionale” dominato dai rapporti di forza tra i grandi imperi. Sarebbe la fine dell’Europa.  Senza una prospettiva che sappia accompagnare la difesa del paese aggredito con l’iniziativa di pace si corre il rischio di trovarsi in un vicolo cieco. Dove, come ha sottolineato Caracciolo, non ci resterà che la scelta fra una catastrofe e una vergogna. Peggio: una miscela delle due.

Che fare al dunque?
I Paesi impegnati a difendere l’Ucraina dalla aggressione di Putin dovrebbero avere la lucidità strategica di affrontare apertamente il problema centrale aperto davanti al mondo il 24 febbraio 2022, che è quello della crisi di tutto un vecchio sistema di relazioni internazionali che ha il suo indubbio precedente nel fallimento degli Accordi di Minsk, anche per responsabilità dell’Occidente. È con questo spirito che si potrebbe almeno tentare di offrire una via d’uscita, riconoscendo che l’ordine mondiale che avevamo alle nostre spalle è crollato, il mondo è diventato multipolare. Sono caduti i pilastri, le idee e i valori su cui si reggeva il confronto Est-Ovest. E che la vetusta pretesa cornice di sicurezza non è riuscita a prevenire la catastrofe in corso. Per questo il compito della diplomazia è quello di mettersi nei panni di tutte le parti. Occorrerebbe farlo dimostrando apertamente la disponibilità a ragionare insieme sulle prospettive di un nuovo sistema di sicurezza globale, che prendendo le mosse dall’attuale epicentro della crisi, che è indubbiamente l’Europa, si allarghi, successivamente, all’Indo-Pacifico. E non come sembra fare una parte dell’amministrazione statunitense facendo prevalere le preoccupazioni per il Pacifico sulle sorti dell’Europa. In una guerra europea il punto di partenza non può non essere che l’obiettivo della ridefinizione di un nuovo ordine europeo. In sostanza il quadro di riferimento ai temi di una comune sicurezza dovrebbe essere considerato essenziale al fine di creare le condizioni per sedersi a un tavolo. Riusciranno gli Stati, e in primo luogo la Russia, a muoversi in questa direzione? Molto probabilmente no. Ma allora è qui che dovrebbe intervenire la diplomazia dei popoli.

Il suo è un pacifismo 2.0?
Lasciamo perdere le definizioni. In sostanza, si tratterebbe di combattere le vecchie logiche nazionaliste e di potenza con lo spirito di un rinnovato mondialismo che abbia sullo sfondo una visione volta a riformare una Unione Europea aggredita dal tarlo del suo stesso nazionalismo interno, a riattivare l’Onu, abolire il diritto di veto, riconsegnare alle Nazioni Unite i poteri di intervento nelle crisi già previsti dalla Carta fondativa e mai implementati, per affidare all’Onu stessa, come è avvenuto per lo Stato dentro i confini delle nazioni, il “monopolio della forza” per ciò che concerne il rispetto della legalità internazionale, sottraendo tale funzione alle “alleanze militari”, eliminando alle radici il ricatto atomico con la messa al bando di tutte le armi di distruzione di massa e muovendo verso il disarmo bilanciato. È del tutto evidente che se l’aggressione in corso, come qualsiasi altra eventuale violazione del diritto internazionale, si fosse potuta affrontare dentro il quadro giuridico da me genericamente prospettato, “l’aggressore” non si sarebbe trovato prevalentemente nella necessità di fronteggiare una “alleanza militare” ma la “giustizia mondiale”: rappresentata dalle deliberazioni, a maggioranza, dell’Onu. Putin contro il mondo e non contro la Nato e viceversa. Ed è altrettanto evidente che non è il richiamo alla fedeltà atlantica che può mobilitare contro “l’aggressione” gran parte dei popoli che stanno alla finestra perché storicamente sospettosi verso quella fedeltà. Io stesso sto dalla parte dell’Ucraina non perché fedele all’atlantismo, ma perché fedele alla Carta delle Nazioni Unite. E non chiedo di uscire dalla Nato, chiedo di ragionare. Sarebbe già importante – in aperta polemica con i falchi europei capeggiati dalla Polonia – porsi l’obiettivo di garantire all’Europa un’autonomia maggiore all’interno del Patto atlantico. Non dovrebbe sfuggire a nessuno che è in corso una manovra da parte di paesi che si dichiarano più atlantici che europeisti volta a cambiare i rapporti di forza all’interno dell’Ue.

Si torna al punto di partenza: il ruolo dell’Europa.
L’Europa dovrebbe farsi promotrice di una concezione totalmente nuova dei rapporti internazionali, al di fuori dell’attuale terrapiattismo proprio dii una geopolitica che stende la carta geografica sul tavolo per tracciare la frontiera tra Est e Ovest, invece di guardare il Pianeta dall’alto del mappamondo. Non abbiamo più tempo. Anche per questo la guerra deve finire al più presto, uscendo definitivamente dagli schemi ereditati dalla guerra fredda. Nel mondo ci si sta distruggendo reciprocamente mentre è urgente che il Pianeta si faccia sistema attraverso una grande sinergia delle immense risorse scientifiche e tecnologiche e morali di cui dispone e colpevolmente gettate nell’inceneritore sanguinario della criminale guerra di Putin. Il Pianeta tutto dovrebbe concentrare le forze contro il principale nemico della nostra sicurezza: la sua possibile auto-distruzione.

18 Maggio 2023

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