Lettere dal carcere
“Sono stato anche io un bambino in carcere con mia mamma, vi racconto cosa vuol dire essere prigionieri a 4 anni”
Giustizia - di a cura di Rossella Grasso
Al 31 marzo 2023 il sistema penitenziario italiano conta 25 detenute madri con 28 bambini. Ventuno di loro, con 23 bambini al seguito, si trovano nei cinque Icam operativi. Si tratta di Istituti di Custodia Attenuata, dove le mamme possono scontare la loro pena con i figli a seguito fino al compimento dell’ottavo anno di età. L’Unità ha trascorso una giornata nell’Icam di Lauro, in provincia di Avellino, e ha potuto toccare con mano come vivono mamme e bambini in quel tipo di strutture dall’aspetto più umano ma che restano pur sempre carceri. E’ opportuno che mamme e bambini vivano da prigionieri il carcere? Cosa significa per un bambino vivere questa esperienza?
Lo ha raccontato Ivano che oggi di anni ne ha 51. E’ stato anche lui un bambino prigioniero, entrando in carcere con sua mamma quando aveva 4 anni. All’epoca le cose erano un po’ diverse da come sono oggi ma l’esperienza raccontata da Ivano, il suo dolore e le sue paure, sono importanti per capire cosa vuol dire mamme e bambini in carcere. Ha incontrato la depressione maggiore all’età di 11 anni. Convive con essa da 40 anni. Lui sa che cosa stanno vivendo quei 23 bambini prigionieri. Sa che, come lui, “anche loro si nasconderanno tra la folla desiderando solo di dimenticare. Consapevoli che, questo desiderio, non si avvererà, mai”. Riportiamo di seguito il testo del suo intervento al convegno dal titolo “Madri fuori” durante il quale ha rappresentato l’associazione “Sbarre di Zucchero”. Dal suo intervento è nata la seguente lettera.
- Lettere dal carcere a Sbarre di Zucchero, raccontateci difficoltà e speranze: affinchè nessuno abbia più “paura di tutto”
- Essere mamma in carcere, storie di donne e bambini in cella: “Privati dell’infanzia e del diritto di essere femmina”
- Lo scandalo delle madri prigioniere, così la destra vuol togliere i figli alle detenute recidive perché indegne
Mi chiamo Ivano. Sono qui per raccontare la storia di un bambino di 4 anni recluso in carcere nel 1975. Un bambino che, tra il 1975 ed il 1977, conobbe la realtà carceraria insieme ai suoi “fratelli” e come lui, nell’arco della loro vita, hanno mantenuto un segreto. Capivano, con un occhiata, di essere sopravvissuti. I compagni di classe, alle scuole elementari, sapevano chi erano. La maestra conosceva quella storia maledetta raccontata sulle prime pagine di tutti i giornali e sui telegiornali che a loro, non era ” permesso” guardare. Non potevano sapere, però, che le loro vite sarebbero diventate di proprietà dello Stato. In pochi minuti. In pochi minuti tutti i loro affetti scomparvero. Auto, elicotteri, armi, passamontagna. Erano arrivati per portare via la loro mamma, il loro papa, i loro zii. Ed anche Lui, suo fratello maggiore, ed i suoi tre cuginetti. In pochi minuti furono separati. Da tutti e da tutto. Anche da se stessi. In pochi istanti, tutti loro, si trovavano in custodia a persone sconosciute. Li portarono all’orfanotrofio. Avevano paura. Tanta. Pensavano che la loro mamma ed il loro papà, i loro zii, la loro Madrina ed il loro Parin fossero stati tutti ammazzati. Avevano tutti tanta paura.
Si sentivano tutti colpevoli: “Abbiamo fatto ammazzare tutti”. Con voce ferma e fredda colei che compresero poi essere l’assistente sociale, disse loro “stanotte dormirete qui, poi vedremo cosa fare”. Erano colpevoli. Lo sentivano. Gli sguardi del sacerdote che gestiva l’orfanotrofio negava loro un sorriso. Dove saranno tutti. Quando faranno i funerali, perché nessuno dice niente. “Ora ci porteranno in prigione”? Chiese il fratello più grande. “No Restate qui, Bevete il latte”. Gli diedero 5 confezioni di latte in scatola. Come quelle della panna da cucina. Non sapevano come aprirla. Com’è difficile riassumere ora, in poche righe, tutta l’angoscia, il terrore, la vergogna e il vuoto lasciato dalla morte dei loro genitori. C’erano altri ragazzini in orfanotrofio. Con loro avrebbero passato la prima notte da soli. In una camerata buia, fredda. Di una costruzione vecchia. Notte dopo notte, giorno dopo giorno. La mattina successiva il prete li convocò in una stanzetta. Non volevano sapere. Al più piccolo mancava tanto la mamma, il papà, gli zii. Non voleva ascoltare ma lo fece. “Non sono morti, sono in prigione” gli comunicò.
Pensò subito che forse non avrebbe dovuto nascondere la piccola bicicletta per fare uno scherzo. Per quello erano tutti in prigione. Era colpa SUA. Tutti loro pensavano che fosse colpa loro. Non li avrebbero visti mai più. Per colpa loro. I giorni passavano, il vuoto era così … Era terribile. Si vergognavano. Non mangiavano. Erano in un orfanotrofio. Il prete ha detto loro una bugia. Qui ci sono i bambini senza papà. Senza mamma. Sono morti tutti. Da un secondo all’altro anche i loro. La scala che salivano per pranzare, nella casa dove tutto iniziò e finì, l’avevano fatta correndo, quel giorno. I carabinieri urlavano: Bambini fuori di qui, veloci e salite in quelle macchine. Il più piccolo tienilo tu che sei un po’ più grande. Poi Silenzio. Tutto era silenzio. Niente mamma. Niente papà. Le lenzuola del lettino che era abituato a trovare fatto e che li, doveva rifare da solo. Aveva 3 anni e mezzo, non sapeva rifarlo il letto. Ma doveva. Avrebbe voluto restarci tutto il giorno in quel lettino. Ma non poteva. Il lenzuolo lo tirava su fin sopra i capelli. Restava sotto quella cuccia. A piangere. Come quasi tutti i bimbi, ogni notte. Ogni rumore era un sobbalzo di paura.
“Vengono a prenderci”, erano passati 4 mesi, più o meno. Ricordava a stento i volti dei suoi genitori. “Le suore, nervose e gelide ( così le ricorda quel bambino) ordinavano. In fila per due andiamo all’asilo. Lui pensava solo e sempre alla sua mamma ed al suo papà. “Alzati” sei sempre l’ultimo. Una mattina si presentò l’assistente sociale con i carabinieri. ” Vieni, tu!” Ormai aveva perso tutto. Che cosa gli importava. “Andiamo da tua MADRE”. Zitto. Lui restava sempre in silenzio. Non finiva più la strada. Era ancora convinto che lo portassero al cimitero. Arrivarono in una città. (Che non menziono). Un portone grande, un muro con il filo spinato. Delle guardie sopra il muro con i mitra. Aveva tanta tanta paura. “Mamma, cosa le avranno fatto, la mia mammina”. Il ricordo delle donne vestite in grembiule azzurro. Non sa se sia un ricordo reale ma questo gli è restato. Una lunga scala, simile a quella della casa da cui furono portati via. Salì. Lei aveva un grembiule, azzurro. E gli fece un grande sorriso piangendo! Era lei, non è morta. Era lei… Avrebbe voluto correre e saltarle in grembo ma no. In cima a quella scala era tenuto dall’assistente sociale. La sua mamma lo guardava e gli diceva di stare tranquillo. E gli mandava i baci. Lui pensava a papà. Dov’è papà. E dov’è la bicicletta che ho nascosto. Ricorda con nitidezza che disse all’assistente sociale: ” è colpa mia, lei non ha fatto niente. Sono stato io non lei!!!”.
L’assistente sorrideva. Mia mamma piangeva, era tutto straziante. Entrarono in una stanza. Guardia fuori dalla porta, c’era un divano. Verde scuro. Di pelle. Era accanto alla sua mamma. E i suoi cugini, suo fratello. Perché non sono venuti con lui. Mamma cercò di raccontare cosa era successo. Come si può raccontare una storia così ad un bimbo di 4 anni. presto avrebbe chiesto di poter stare in cella insieme a lui. Non avrebbe mai voluto staccarsi da lei, mentre scrive queste parole ricorda. Il ricordo è così nitido che sente il bisogno di abbracciarla forte, forte. Dobbiamo andare, disse l’assistente sociale. Un colpo al cuore. La paura che gli stessero dicendo delle bugie, che lo avessero portato a salutarla per l’ultima volta. Perché non volevano credergli! Perché non la lasciavano tornare a casa! Eppure era vero che la bicicletta l’aveva nascosta lui! Lui, che era ancora convinto che tutti fossero stati portati via per colpa sua “ secondo te ci hanno portati qui perché hai nascosto la bicicletta? No cucciolo mio, no, non è colpa tua!” e le carezze, e lui non le credeva e pensava che lei e tutti gli altri si stessero prendendo la colpa delle sue malefatte per non farlo mettere li.
“Come stai (…) e i cuginetti”? Ora può capire che, in quel momento, la sua mamma non sapeva cosa dire. Che il mondo era crollato addosso anche a lei. Lei che, due anni dopo, si rivelò completamente estranea a tutti i fatti. Così come il suo papà. Si è chiesto così tante volte, crescendo, chissà che tremendi sensi di colpa avranno avuto loro. La sua mamma, il suo papà, i suoi zii. Il primo ingresso in carcere fu in un mese caldo. Gli fecero indossare dei pantaloni alla zuava ocra ed una camicia di lino maniche corte. Non aveva niente per cambiarsi, non sapeva niente e, ormai, si lasciava prendere e portare ovunque senza porsi domande. Voleva solo abbracciare Papà, continuava a sperare che fosse vivo. Intanto, però, restava con la mamma. Le raccontava cosa faceva in orfanotrofio, aveva iniziato a sentirsi a casa in quel posto. Nessuno veniva mai a trovarli. Ne a loro, ne a nessun altro. Erano tutti soli. Non si sentiva diverso dagli altri in orfanotrofio. Erano una famiglia. Il fratello più grande era il papà. Lui aveva 8 anni in più di loro. Nel 1975 non c’era la possibilità di restare e crescere con la mamma, come ora. C’erano, almeno per lui, dei periodi più o meno lunghi in cui condivideva una cella giorno e notte con lei. Aveva due splendide case: A casa con mamma, in carcere. A casa con i suoi fratelli cuginetti ed amici: l’orfanotrofio. Quando si trovava in carcere si sentiva in colpa nei confronti di suo fratello (lui era più grande non poteva godere di questo fantastico beneficio), quando era in orfanotrofio gli mancava tanto la mamma. Aveva ormai 4 anni e ancora non aveva visto papà.
Natale. quasi 6 anni. Uno zio, da parte di sua mamma, venne in carcere. Dovete immaginarvi che non sapeva, non conosceva cosa si dovesse fare per ottenere i permessi. Sapeva soltanto compilare le domandine per la mamma. Perché “così imparava a scrivere” e la maestra sarebbe stata contenta. Quel bimbo compilava le domandine per il sopravvitto, per poter fare la doccia. A lui piaceva farlo perché lo prendeva come un gioco. Per lui era come scrivere una lettera a Gesù bambino chiedendo, come regalo, una doccia calda per la mamma e per lui. Aspettava la risposta che portava la guardia. Una donna in genere, ma non sempre. Capiva quando in sezione entrava qualcuno dall’esterno per lo spostamento d’aria che faceva sbalzare i vetri della finestra della cella. Si era abituato ad ogni rumore, riconosceva l’ora dal suono del campanello di cambio turno. Quello del carrello colazione alle 7, i passi delle guardie. Quelli delle detenute erano meno decisi, perché non andavano di fretta ed avevano le ciabatte ai piedi. Il profumo lo avevano soltanto quelli che arrivavano da fuori o le guardie. A blindo aperto, mentre faceva il sonnellino, arrivavano brevi folate di lavanda. Una mattina alle 5 li chiamarono. Si vestì in fretta e furia perché gli avevano detto che sarebbe andato a trovare papà. Papà !!! allora è vivo davvero, erano vere le lettere che mamma mi leggeva. Erano le sue! Ma poteva andare soltanto lui. Sotto, ad aspettarlo, suo zio. Che non vedeva dal giorno dell’arresto. Lui gli fece un sacco di domande, domande alle quali non sapeva rispondere.
La strada era lunga e la destinazione sembrava uguale al carcere della mamma. Arrivarono in un parcheggio, davanti a lui un lunghissimo muro di cinta. Un’altro carcere. Quello di papà. Attraversarono un lungo cortile. Tutto era lungo, e tutto gli faceva paura fuori dalla SUA cella. Arrivarono all’ingresso dove furono perquisiti. Suo zio si era tirato giù le mutande, lui anche. Ma ci era abituato, lo faceva ogni volta per rientrare a casa dalla mamma. Aspettarono in una grande sala verde. Tutto era verde nelle prigioni. Aveva paura che suo papà lo sgridasse per la bicicletta!!! Arrivò, con i capelli bianchi. Sorridente. Ben vestito. Lo prese in braccio e lo strinse forte. Gli voleva tanto bene e gli mancava tantissimo. Anche lui era vivo. Anche lui compilava domandine. Anche qui, fuori dalla porta, c’era la guardia. Il bimbo la ricorda armata. Non sa se può essere così, oggi, le guardia all’interno non lo sono. Ricorda mitra ovunque. Su quei muri di cinta che camminavano guardie con i mitra. Avanti e indietro. In piedi nelle casette con i vetri, anch’essi verdi, agli angoli del muro. Non gli facevano più paura. Anzi, lo rassicuravano. Per lui la normalità non era più l’asilo, la casa della domenica, il prosciutto e gli agnolotti ripieni, la stufa accesa e il pino grande. Le biciclette e la terra con cui si sporcava tutto insieme ai suoi cuginetti. A lui, quella realtà, faceva paura. Senza guardie col mitra, si sentiva nudo.
Ogni volta che passava un’auto dei carabinieri o un elicottero qualunque, si nascondeva. Era convinto che loro fossero i cattivi, e le guardie del carcere i buoni che lo proteggevano. La sua infanzia è stata questa. Nel febbraio 1977 finì tutto, per LUI. Tornò a “casa”. Capì molto presto che non finì un bel niente. Non c’era più una casa. Non cera più il pino, non c’era più niente (tutto fu sequestrato dalla A.G.). continuarono a vivere, uniti, senza mai parlare di niente. Sembra un film. La realtà, però, durava 24 ore al giorno, ed è durata 24 ore al giorno per 2 anni. Sia per lui, che per suo fratello. Per i suoi tre cuginetti. Vorrei tanto scrivere che la sua vita, dopo, è stata una “resurrezione”. Non posso farlo. Perché ancor oggi, se qualcuno si avvicina senza che lui lo veda, i suoi occhi scattano. Cosa ha visto in quegli anni, cosa ha subito. Non lo vuole dire. Non credo lo dirà mai. Vorrebbe che questa breve storia fosse letta da chi ha il potere di far cessare questo orrore. Queste torture psicologiche e non solo. Vorrebbe leggere un giorno : MAI PIU BAMBINI PRIGIONIERI. Ma anche: mai più mamme prigioniere. Vorrebbe che le mamme potessero scontare la pena una volta che i figli siano cresciuti oppure in un posto diverso. Più adatto ad una mamma.
Quel bimbo ha superato i 51 anni. La prima volta che fu portato in carcere, da adulto, ci entrò con il sorriso sulle labbra. Dormì così bene la prima notte che si stupirono perfino gli assistenti. Si sentiva a casa lì, In carcere. In cella. Quello era il suo posto. La realtà è che tutti i bimbi che hanno vissuto il carcere sono così traumatizzati che passeranno la vita ad auto-flagellarsi, senza permettere a nessuno di amarli. Sogneranno spesso la prigionia. Sobbalzeranno, per tutta la vita, quando il rumore di una serratura chiuderà la porta di una cantina e si sveglieranno di soprassalto al rumore del vetro raccolto dai cassonetti. Schizzeranno gli occhi ogni volta che qualcuno darà loro una carezza. E, cosa più triste di tutte, si sentiranno sempre diversi, incompresi. Dovranno spiegare ai loro compagni e compagne di vita il perché. E non avranno voglia di farlo. Tanto sapranno che chi non ha vissuto il carcere da bambino, non potrà mai capire. Vivranno con il terrore. Ogni volta che il campanello di casa suonerà ad ore inconsuete, si spaventeranno. Penseranno che qualcuno sta venendo a prenderli per portarli via. Ogni volta che il telefono squillerà fuori dai soliti orari penseranno che, a chiamare, siano i carabinieri. Per dir loro che qualcuno è morto, oppure è stato arrestato. Tutto questo succederà ai bimbi, ai bimbi innocenti che sono stati portati via con la forza, ai bimbi che vivono con la mamma nel carcere a loro destinato. Quei bimbi cresceranno.