Il presidente della Costituente

La lezione di Terracini ai fan del premierato

Strenuo difensore del pluralismo e della dialettica, convinto com’era che la democrazia fosse un cantiere sempre aperto, la sua figura ricorda alla destra prevaricatrice la centralità del Parlamento

Cultura - di David Tozzo

10 Dicembre 2025 alle 17:30

Condividi l'articolo

05/04/1956 Roma archivio storico Lapresse
05/04/1956 Roma archivio storico Lapresse

Nel 130ᵐᵒ anniversario della nascita di Umberto Elia Terracini, il Senato dedica al presidente dell’Assemblea Costituente che firmò la Carta, giovedì 11 dicembre, il convegno “Primo fra pari”, promosso da Alleanza Verdi e Sinistra. L’iniziativa riunisce, fatto senza precedenti, cinque già presidenti delle Camere — Luciano Violante, Pier Ferdinando Casini, Fausto Bertinotti, Pietro Grasso e Roberto Fico — in un dialogo che attraverserà stagioni diverse della Repubblica italiana nel segno della centralità del Parlamento.

Terracini non interpretava la guida dell’Aula come potere, ma come garanzia del pluralismo parlamentare. La sua idea di democrazia era refrattaria tanto al culto dell’efficienza ad ogni costo quanto alle sirene del decisionismo. Il suo fu un parlamentarismo orizzontale, dove il pluralismo non era un fastidio ma la sostanza stessa della decisione. Propose e difese strenuamente, spesso quasi in solitudine, durante i lavori della Costituente, istituti come quello referendario – che lui voleva addirittura propositivo: un’iniziativa popolare direttamente vincolante – e una Corte costituzionale autonoma e mista, immaginando un sistema nel quale la partecipazione non scavalcasse la rappresentanza ma la rafforzasse (e viceversa), rendendola più porosa, più permeabile, più radicata nella società. Negli ultimi decenni, però, questo equilibrio si è assottigliato. La casa del popolo è stata progressivamente svuotata. La decretazione d’urgenza è diventata norma, le fiducie prassi, il dibattito un orpello. Il Parlamento, da luogo della deliberazione, è spesso divenuto un luogo di ratifica, un palcoscenico spento dove il conflitto regolato tende a dissolversi. E quando la dialettica viene compressa, cresce l’idea — pericolosamente diffusa — che la complessità sia un difetto e che la politica possa ridursi a un comando più che a un confronto. È la cultura dell’uomo solo al comando che si riaffaccia, ciclicamente, a ogni crisi della democrazia, come riflesso condizionato di un Paese che fatica a fidarsi dei propri stessi anticorpi istituzionali.

Ora, con il progetto di premierato d’impronta presidenzialista, si tenta un salto definitivo: trasformare il conflitto regolato in obbedienza verticale. Ma una democrazia semplificata è sempre una democrazia indebolita, un corpo leggero che rischia di perdere profondità e respiro. Terracini – comunista e libertario insieme, giurista e ribelle – non avrebbe tollerato una Repubblica decisa “dall’alto”. Avrebbe ricordato che la Costituzione non è una reliquia, ma una promessa: un ponte, non un monumento. E che la dialettica non è un ostacolo, ma una condizione della libertà; la discussione un dovere civile; la diversità un diritto costitutivo dell’ordine repubblicano. Per lui, la Repubblica non era mai un edificio terminato, ma un cantiere aperto, una responsabilità condivisa che non ammette scorciatoie; e la libertà non era solo un valore, ma una disciplina collettiva. Riunire cinque presidenti delle Camere, ciascuno dei quali ripercorrerà la propria esperienza alla presidenza di una Camera, significa allora rimettere al centro la questione più urgente della nostra vita pubblica: la crisi di rappresentanza e di centralità parlamentare, che dura da decenni e che rischia di acuirsi con una riforma che personalizza il potere e impoverisce la partecipazione, a scapito anche e in primis del Parlamento, la grande infrastruttura civile della Repubblica, il luogo in cui il conflitto non viene rimosso ma ordinato, non ridotto ma riconosciuto, non sterilizzato ma reso fecondo per la comunità, non dimenticando che senza pesi e contrappesi del bilanciamento dei poteri, senza controllo reciproco, nessun potere rimane democratico a lungo.

In vista degli ottant’anni del referendum del 1946, la domanda ritorna con nitidezza antica: una Repubblica dei pari o una Repubblica dei capi? La scelta non riguarda il passato, ma il modello di potere che consegniamo al futuro: se si vogliono istituzioni capaci di far vivere il pluralismo o se si preferisce una verticalizzazione che chiama efficienza ciò che spesso è semplice sottrazione di voce. Terracini scelse senza esitazioni la prima strada, e con lui molti che lo hanno succeduto. E forse, proprio oggi, quel sentiero torna visibile: fragile, esigente, ma ancora percorribile. Il confronto odierno non è un rito della memoria, ma una verifica: capire se l’Italia voglia riconoscersi ancora nel modello costituzionale che Terracini contribuì a edificare o se preferisca un presente amministrato dall’alto, più rapido ma più povero. Resta la sua lezione più semplice e più alta: la democrazia non è mai un possesso, ma una costruzione quotidiana. E il confronto, costante. Pari tra pari. Questo il senso e lo spirito di questo appuntamento unicum.

10 Dicembre 2025

Condividi l'articolo