La strategia della destra
Perché Meloni vuole cambiare la legge elettorale, la premier tira dritto dopo la batosta alle regionali
Il no del Pd a un proporzionale con premio di maggioranza spinge Giorgia a tentare il colpo di mano. Ma anche FI e Lega covano dubbi...
Politica - di David Romoli
La sorpresa generale suscitata dalla scoperta che, con questa legge elettorale, il centrodestra non ha affatto la vittoria in tasca lascia un po’ sbigottiti. La legge in vigore, varata nel 2017 per ovviare alla sentenza della Corte che aveva dichiarato parzialmente incostituzionale l’Italicum di Renzi, lascia amplissimi margini di probabilità al pareggio, soprattutto al Senato. È vero che questo Parlamento assicura invece assoluta stabilità ma dipende dall’anomalia per cui, nel 2022, le forze oggi all’opposizione si sono presentate divise in 3. Se così non fosse stato la situazione sarebbe opposta come opposta era stata nella precedente legislatura, eletta con il medesimo sistema, il Rosatellum.
Dunque era ovvio anche da prima delle ultime regionali che, con un’opposizione unita, la partita sarebbe stata comunque molto più aperta che nel ‘22 e infatti la premier era già decisa a modificarla. Sperava di trovare una sponda nel Pd e i contatti erano già stati presi. La destra presumeva di trovare disponibilità al Nazareno perché una legge con premio di maggioranza e indicazione del premier avrebbe da un lato costretto tutte le forze del virtuale Campo Largo a unificarsi, dando così una mano alla politica “testardamente unitaria” di Elly Schlein e dall’altro impedito a Conte di rinviare a dopo le elezioni il nodo della premiership per poter fare i suoi giochi senza doversi legare le mani in anticipo.
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Quella manovra non è riuscita. I vantaggi per il Pd risultano in effetti meno rilevanti di quelli garantiti da questa legge: la vittoria o un pareggio che assegnerebbe comunque al partito di Elly una postazione centrale e di governo. Dunque è probabile che l’opposizione strenua a una riforma elettorale proclamata dal Pd a botta calda si riveli permanente. È tuttavia certo che di fronte allo spettro del pareggio, ancor più temuto a destra della sconfitta secca perché implicherebbe anche il probabile disfacimento della coalizione, Giorgia insisterà varando la riforma con le cattive, cioè a maggioranza.
I muri maestri della nuova legge sono già noti: proporzionale con premio di maggioranza e indicazione del premier, norma che tuttavia non piace affatto né alla Lega né a Fi perché temono, giustamente, che in questo modo il partito del candidato, cioè FdI, sarebbe enormemente avvantaggiato. La giustificazione della prima norma è che altrimenti non sarebbe garantita la stabilità. La ratio della seconda, l’indicazione del premier, è invece anticipare il premierato “praticando l’obiettivo” e dunque, in buona parte, “abituare” gli elettori alla nuova Costituzione ancora prima che sia in vigore e legittimata dal voto popolare. Restano in ballo numerose altre questioni: in particolare l’eterno dilemma tra preferenze, quelle che tutti esaltano sino al momento di reintrodurle ma che in realtà non vuole nessuno o quasi, e i risarcimenti per una Lega che uscirà comunque depotenziata dall’abolizione dei collegi.
Sulla carta l’argomentazione della destra sulla governabilità è difficilmente attaccabile. Ma proprio la riforma costituzionale con elezione diretta del premier permetterebbe di arrivare allo stesso risultato battendo tutt’altra via. Quella che andrebbe considerata maestra. Se si affrancasse il premier dal voto di fiducia, evitando così anche i bizantismi potenzialmente devastanti di questa riforma, e si eleggessero le Camere con un sistema proporzionale puro, il Parlamento tornerebbe a essere centrale perché il governo, senza temere il voto di sfiducia e senza più disporre della scorciatoia del voto di fiducia per imporre le sue decisioni, dovrebbe cercare su ogni legge le intese in grado di formare la maggioranza necessaria per approvare quelle leggi. L’esecutivo sarebbe rafforzato ma il potere legislativo, oggi esistente solo di nome ma non di fatto, lo sarebbe a propria volta.
Nei prossimi mesi, con l’approvazione del premierato che richiederà molti mesi, con la campagna per il referendum sulla giustizia e poi con quella per il referendum sul premierato, che sarà quasi certamente celebrato all’inizio della prossima legislatura, impazzeranno da una parte e dall’altra i discorsi sul sistema di pesi e contrappesi che costituisce l’essenza di una democrazia non plebiscitaria. Sono discorsi sacrosanti, ovviamente. Però non si capisce perché da quell’equilibrio sia stata espunta l’istituzione che dovrebbe, a norma di Costituzione, essere il perno dell’intero sistema e il più naturale contrappeso al potere esecutivo: appunto il Parlamento.