Il parlamentare dem
Intervista a Matteo Orfini: “A problemi radicali, risposte radicali: per Schlein parlano i risultati”
«Dalla Puglia alla Campania il progetto del Pd e del campo largo ha dimostrato di essere in ascesa. Il riformismo non è un'identità, ma un metodo: redistribuire la ricchezza non è una bestemmia, è necessario»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Matteo Orfini, parlamentare e membro della Direzione nazionale del Partito Democratico. Puglia, Campania, Veneto. Giorgia Meloni ha poco da saltellare…
Direi proprio di sì. È stata una tornata di elezioni regionali molto positiva per il centrosinistra e abbastanza negativa soprattutto per Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia. Il risultato di Puglia e Campania è ampiamente al di sopra delle aspettative, non tanto per l’esito finale quanto per le dimensioni del distacco tra i candidati di centrosinistra e quelli di centrodestra. E anche in Veneto, dove abbiamo perso, si è costruito un progetto unitario che può rappresentare l’inizio di una rimonta. Abbiamo recuperato una parte del distacco, non ancora sufficiente ma significativo e incoraggiante, e questo è un indiscutibile passo in avanti.
Come ne esce il Pd da questa tornata elettorale tenendo anche conto del dibattito che si era sviluppato in precedenza rispetto al profilo da dare al campo largo?
Ne esce rafforzato sui fondamentali della strategia politica. Si è fatta tanta malevola ironia in questi mesi sulla difficoltà nel costruire una coalizione. Parlano i risultati. In tutte le 7 competizioni in cui si è votato, siamo andati con la stessa coalizione, molto larga, senza veti ed esclusioni, e questo ha rafforzato non solo la capacità di essere percepiti come un’alternativa credibile alla destra, ma c’è anche il dato che dentro i buoni riscontri della coalizione il Pd ha ottenuto un risultato importante delle nostre liste. Questo dimostra che quando usciamo dai retroscena dei giornali, quando ci smarchiamo dalla nefasta retorica delle polemiche, quando usciamo dai sondaggi e misuriamo i risultati e i voti, si certifica che il Partito democratico è in crescita e che è parte fondamentale e inclusiva di una coalizione ormai imprescindibile e che quindi la partita delle elezioni politiche è apertissima.
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E dal fronte del centrodestra?
Emerge una fatica crescente di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, che pagano l’incapacità di dare risposte ai problemi reali dei cittadini e crescono le tensioni nella maggioranza, tra Lega e Forza Italia, tra Lega e Fratelli d’Italia. Le divisioni sono evidenti e l’effetto che hanno è anche quello di paralizzare l’azione di governo.
Resta e si estende la marea astensionista. Male incurabile delle democrazie liberali del nostro tempo?
Una cura la dobbiamo trovare per forza, altrimenti mettiamo a rischio alcuni dei principi fondativi della democrazia che vive di partecipazione, di credibilità delle istituzioni. Se non si corre ai ripari la democrazia rischia diventare molto fragile ed esposta a seri rischi.
È chiaro che fin qui nessuno ha trovato la soluzione. Probabilmente pesa anche un meccanismo in cui si è votato in sei regioni praticamente una a settimana, senza neanche creare quell’aspetto moltiplicatore che magari con un election day unico si sarebbe creato di maggiore attenzione e consapevolezza della sfida. Ma i pur auspicabili accorgimenti elettorali, non risolvono il problema di fondo: quello di una sfiducia che cresce da anni e che ha bisogno di trovare risposte all’altezza che, a mio avviso, non possono che essere all’interno del lavoro dei partiti, che devono tornare ad essere strumenti di partecipazione ampia e popolare. D’altro canto, in questi mesi abbiamo visto e misurato in diversi momenti che la voglia di partecipazione del paese c’è, esiste, ed è un segno di speranza e di futuro che siano i giovani tra i più partecipi protagonisti. Penso alle piazze, alle iniziative su temi specifici, quello che si è realizzato attorno alle vicende del Medio Oriente, al genocidio di Gaza. Abbiamo grandi fiammate di partecipazione che dimostrano che non c’è un Paese che rifiuta la politica, ma c’è un Paese che evidentemente non considera l’attuale offerta politica sufficiente. Questo noi lo diciamo da anni ed è il primo obiettivo che la segreteria di Elly Schlein ha posto al centro, cioè recuperare l’astensionismo.
Dalle piazze alle urne. La radicalità paga?
Io penso che la radicalità sia nei problemi che noi dobbiamo affrontare. Nel momento in cui c’è un Paese spaventato dal futuro, preoccupato per quello che accade intorno a noi, che vive delle enormi ingiustizie nella propria quotidianità, la difficoltà a curarsi, ad avere un salario dignitoso, la difficoltà ad avere accesso a servizi universali, sono tutti problemi che non si risolvono correggendo la punteggiatura a un testo scritto male. Bisogna scrivere un testo nuovo. Questo significa essere radicali? Non lo so. Quel che so, e per cui mi batto e non da oggi, è che occorra un progetto credibile e autorevole. E su questo e per questo abbiamo bisogno tutti insieme di fare un salto di qualità nella capacità di mettere in campo una proposta per il Paese che abbia queste caratteristiche, attorno alla leadership di Elly Schlein. Il che, per non eludere la tua domanda, significa non aver paura di misurarci con la radicalità dei problemi. Il riformismo è un metodo. Non è una identità. È un metodo che va applicato, ovviamente. Ma oggi servono risposte radicali a problemi radicali, senza timori e mancanza di coraggio. D’altra parte, segnalo che nel mondo non è, purtroppo, che vincano i moderati. Siamo con Trump, con Milei, con le forze di destra neofascista che attecchiscono in tutta Europa, con Meloni… Non vincono nuove Merkel. Forse anche noi avremmo bisogno di essere percepiti come portatori di un progetto autorevole, credibile sì ma che sappia anche dare l’idea di un cambiamento radicale. Se la società di oggi è sempre più ingiusta ed escludente, bisogna cambiarla.
A proposito di radicalità. Per aver adombrato l’ipotesi di una tassazione degli ultra-ricchi, Elly Schlein è stata fatta oggetto di un serrato fuoco amico, accusata di sinistrismo e di mancanza di cultura di governo.
Ci sono passato anche io, nel mio piccolo, bersagliato dal “fuoco amico”. Durante il governo Conte bis, io e Nicola Fratoianni presentammo un emendamento alla legge di bilancio che proponeva una sorta di piccola patrimoniale, molto soft. Fummo crocefissi e quell’emendamento fu bocciato praticamente da tutto il Parlamento. Capisco che sia un tema che basta toccarlo e scatena subito un linciaggio mediatico. Resto convinto che il principio che quel 10-15% di grandi ricchezze, perché di questo parliamo, possa essere tassata un pochino di più per utilizzare quelle risorse redistribuendole al restante 85%, francamente non mi sembra una bestemmia. Forme di tassazione del genere ci sono in tanti Paesi europei. C’è una cosa che su questo non ho mai raccontato ma credo che oggi si possa farlo…
Prego.
Quando con Fratoianni presentammo quella proposta, una delle rare volte che mi capitò di discutere di questo, con una reazione come sempre brutale, mi arrivò un messaggio da David Sassoli, allora presidente del Parlamento europeo. Mi inoltrò un articolo in cui mi segnalava tutti i casi di Paesi europei nei quali erano previste forme di tassazione dei grandi patrimoni. Ovviamente non si espresse e non mi permetto di dire che sostenesse la proposta perché non è così, però mi segnalò lui stesso che quello che stavamo discutendo non era poi così eversivo e fuori dalla discussione europea.
Per restare all’Europa. Dall’Ucraina alla Palestina, l’Europa ha abdicato a qualsiasi protagonismo politico in totale subalternità all’America di Donald Trump?
Deve sicuramente recuperare un protagonismo. Io sono stato, domenica a Roma, alla manifestazione della comunità ucraina in Italia, nella delegazione del Partito democratico. Per dire esattamente questo, cioè che la proposta iniziale avanzata da Trump era assolutamente irricevibile e che lavorare per la pace significa lavorare per una pace giusta, che coinvolga pienamente nella discussione e nella condivisione l’Ucraina, altrimenti non è una pace. Lo stesso discorso vale per quello che sta accadendo in Medio Oriente. Siamo ancora molto lontani dalla pace. È un processo in divenire, che va monitorato e sostanziato ogni giorno, nel quale andrebbero inseriti sempre più elementi di garanzia per i palestinesi. Le violenze dei coloni continuano, spesso supportate dallo stesso esercito israeliano. A Gaza siamo in una situazione migliore di un mese fa, ma ancora molto, molto lontani da una pace degna di questo nome. Lo sapevamo, però mi piacerebbe che nell’un caso, l’Ucraina, come nell’altro, la Palestina, il protagonismo dell’Europa fosse maggiore e molto più incisivo. Non possiamo lasciare tutto nelle mani di Trump, anche viste le caratteristiche del soggetto.
In ultimo. Se dovessimo, come nella vecchia Settimana enigmistica, unire i puntini, dalle regionali in Italia ai successi dei Democratici americani nella recente tornata elettorale, soprattutto con la vittoria di Mamdani a New York, si può azzardare che il vento stia un po’ cambiando?
Io penso che questa stagione orribile di una destra così violenta politicamente finirà, e finirà prima del previsto. Perché è troppo, perché sta fallendo da tutti i punti di vista, e perché non si governa “contro”, non si governa dividendo il Paese, non si governa indicando ogni giorno nemici da dare in pasto all’opinione pubblica. Si governa non “contro” ma “per conto di…”. Governare cercando di costruire inclusione, coesione, tenendo insieme le persone, restituendo fiducia nel futuro. Su questo la destra sta fallendo. È una destra che punta sulla paura, sulla rabbia e sulla divisione. Questo poco a poco produrrà una crisi di rigetto nel nostro Paese e più in generale in Occidente. Da questo punto di vista, penso che siamo più avanti di quello che percepiamo. Persino uno come il sottoscritto solitamente pessimista, torna a guardare con un certo ottimismo al futuro. È chiaro che molto dipende da noi, dalla nostra capacità di non considerare questo un esito scontato. Andrà bene se noi sapremo essere in grado di alzare il livello del nostro gioco, di realizzare un salto di qualità e una nuova fase di iniziativa nel Paese e anche a livello europeo, per cambiare le cose e per costruire quel progetto autorevole, credibile e radicale di cui parlavo.