Il presidente nazionale dell'Arci

Intervista a Walter Massa: “Cara Meloni, chi bombarda i bambini a Gaza non può essere alleato dell’Italia”

«L’Italia continua a sostenere senza condizioni Israele, rendendosi complice di questa catastrofe umanitaria: una scelta grave che ci isola e ci colloca dalla parte sbagliata della storia. Rifiutare il riconoscimento dello Stato di Palestina come ha fatto la premier significa accettare l’occupazione permanente, le colonie, la cancellazione di un popolo»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

28 Agosto 2025 alle 09:00

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Photo credits: Paola Onofri/Imagoeconomica
Photo credits: Paola Onofri/Imagoeconomica

1.015.204 socie e soci, 44.101 circoli, 105 comitati territoriali. Numeri che raccontano il radicamento dell’Arci in tutto il territorio nazionale. Citiamo dalla “carta d’identità” dell’Arci: “Nasciamo nel 1957 a Firenze come organizzazione per la difesa e lo sviluppo di case del popolo e circoli ricreativi. Siamo eredi della tradizione mutualistica dei movimenti popolari e antifascisti che hanno contribuito a costruire e consolidare la democrazia italiana fondata sulla Costituzione. Oggi siamo donne e uomini di tutte le età che credono nella libertà di associazione e nell’autorganizzazione democratica delle persone. Siamo schierati dalla parte della pace, dei diritti, dell’uguaglianza, della solidarietà, del libero accesso alla cultura, della giustizia sociale, dei valori democratici”. Dell’Arci, Walter Massa è il Presidente nazionale.

L’invasione di Gaza City è iniziata ormai da diversi giorni. Il bilancio dei morti, la quasi totalità civili, donne, bambini, adolescenti, cresce di ora in ora. I governi sono colpevolmente silenti, ma cresce la mobilitazione popolare. Anche Arci ha questa percezione?
L’invasione di Gaza City è solo la parte più visibile di una tragedia che non riguarda solo la Striscia, ma anche la Cisgiordania, e che va avanti ormai da oltre venti mesi. Mentre i bombardamenti radono al suolo interi quartieri e la popolazione civile viene colpita con la fame e la sete usate come armi di guerra, i tank israeliani cingono d’assedio Gaza City e in Cisgiordania continuano arresti di massa, violenze dei coloni e l’espansione delle colonie illegali. È un progetto politico preciso: cancellare la prospettiva di uno Stato palestinese, rendere impossibile la continuità territoriale, imporre un regime di apartheid. Come abbiamo scritto insieme al presidente nazionale delle Acli, tutto ciò affonda radici in decenni di occupazione e politiche di colonizzazione. Anche la vostra prima pagina di qualche giorno fa lo ha ricordato con forza: non siamo di fronte solo a un massacro di innocenti, ma a un attacco sistematico contro chi prova a raccontarlo, con oltre 245 giornalisti assassinati. Eppure, gli alleati storici del governo israeliano restano a guardare. Alcuni Paesi europei – Spagna, Irlanda, Norvegia – hanno compiuto, seppur tardivamente, passi concreti riconoscendo lo Stato di Palestina e denunciando le violazioni del diritto internazionale. Persino la Germania, pur con prudenza, ha limitato l’invio di armi. L’Italia, invece, continua a sostenere senza condizioni Israele, rendendosi complice di questa catastrofe umanitaria. È una scelta grave, che isola il nostro Paese e lo colloca dalla parte sbagliata della storia. Più passa il tempo, più cresce il rischio che la comunità internazionale normalizzi occupazione e massacro, trasformando l’eccezionale in ordinario: sarebbe un danno irreparabile per i valori universali su cui l’Europa afferma di fondarsi. Ma intanto cresce la mobilitazione popolare, ed è lì che i valori europei si tengono in vita. Penso all’incredibile partecipazione che accompagna la imminente partenza della Global Sumud Flotilla, a cui l’Arci aderisce convintamente attraverso il nostro progetto “TOM – Tutti gli occhi sul Mediterraneo”, impegnato da mesi nel monitoraggio e nel soccorso in mare. La narrazione tossica che bolla come “antisemita” chi denuncia questo genocidio è ormai sepolta: qui non è in discussione un’opinione politica, ma il futuro dell’umanità. La Palestina è la punta visibile di un iceberg che riguarda tutti: o si sceglie la parte del diritto, della pace e della democrazia, oppure si finisce dalla parte dell’autoritarismo, della guerra come strumento e del riarmo forsennato.

Donald Trump ha definito Benjamin Netanyahu un “eroe di guerra” e un “brav’uomo”.
Parole inaccettabili. Definire “eroe di guerra” chi sta guidando il massacro di decine di migliaia di civili e trasformando Gaza in un cimitero a cielo aperto significa legittimare il genocidio. Non è folklore politico: sono dichiarazioni che alimentano l’impunità e confermano l’idea che Israele possa violare sistematicamente il diritto internazionale senza conseguenze. Ma non c’è solo Trump. La retorica della “sicurezza di Israele a ogni costo” è condivisa da ampi settori della politica internazionale, anche in Europa. Ed è qui che si misura la vera ipocrisia: se certe frasi le pronuncia un leader come Trump è facile indignarsi, ma se poi i governi occidentali continuano a vendere armi, a coprire le violazioni, a negare perfino il riconoscimento della Palestina, allora la responsabilità è ben più grave. Netanyahu non è un “brav’uomo”: è il capo di un governo di estrema destra che ha fatto della colonizzazione e dell’apartheid un programma politico, che reprime l’opposizione interna, che ha trasformato la tragedia del 7 ottobre nell’alibi per annientare un intero popolo. Chi lo definisce un eroe si assume la responsabilità di legittimare la violenza. Noi crediamo esattamente il contrario: non c’è sicurezza senza diritti, non c’è pace senza giustizia. La storia giudicherà chi oggi celebra Netanyahu: saranno ricordati come complici di un massacro.

L’Europa si mobilita per l’Ucraina ma è inerme su Gaza. Due pesi e due misure?
Sì, due pesi e due misure. Di fronte all’aggressione russa in Ucraina, l’Europa ha reagito con sanzioni immediate, aiuti concreti e una mobilitazione diplomatica e militare senza precedenti. Su Gaza, invece, silenzio e immobilismo. È un atteggiamento che mina la credibilità stessa dell’Unione: se il diritto internazionale vale a Kiev deve valere anche a Rafah e a Gerusalemme Est. Il tabù è Israele. La politica europea non ha mai avuto il coraggio di denunciare fino in fondo il sistema di occupazione, colonizzazione e apartheid. E questo oggi la rende complice. Non a caso, tanti cittadini europei, soprattutto giovani, guardano con disincanto alle istituzioni: vedono la distanza tra i proclami di legalità e la tolleranza verso un massacro quotidiano. Noi non parliamo per sentito dire. In Cisgiordania abbiamo visto case demolite, quartieri cancellati, check-point che spezzano la vita delle persone. Un’ingiustizia strutturale che dura da decenni e che a Gaza diventa bombardamenti, fame, assedio totale. Alcuni Paesi europei hanno avuto il coraggio di rompere il muro: Spagna, Irlanda, Norvegia hanno riconosciuto la Palestina. Non è risolutivo, ma è un passo di coerenza. L’Italia resta ferma. Subalterna. E quindi sempre più lontana dai valori della propria Costituzione e della stessa Unione europea.

Oltre 19mila bambini palestinesi uccisi, altre migliaia amputati o ridotti a scheletri umani. Ma in Italia c’è ancora chi si scandalizza quando si parla di genocidio e grida all’antisemitismo.
I numeri parlano da soli: più di 19mila bambini uccisi, ospedali bombardati, intere generazioni segnate da mutilazioni e denutrizione. È la realtà documentata dalle agenzie dell’ONU. Se questo non è genocidio, allora la parola ha perso senso. Negarlo significa giustificare l’ingiustificabile. Trovo gravissimo l’uso strumentale dell’accusa di antisemitismo. L’antisemitismo è odio verso il popolo ebraico e va combattuto senza tregua. Ma non c’entra nulla con la critica legittima – e necessaria – a un governo che porta avanti colonizzazione, apartheid e guerra contro i civili. Confondere le due cose riduce la gravità dell’antisemitismo reale e mette a tacere chi difende i diritti universali. Ho visto con i miei occhi la tenda del Comitato al-Bustan a Silwan, luogo poverissimo ma carico di dignità. Anche quella è stata abbattuta. E ancora più forti sono state le due carovane verso Rafah a cui abbiamo partecipato nel 2024 e nel 2025: file interminabili di camion di aiuti bloccati al confine mentre dentro la gente moriva di fame. Quelle immagini valgono più di qualsiasi definizione giuridica: qui c’è un disegno di cancellazione di un popolo. Chi si scandalizza per la parola “genocidio” dovrebbe guardare in faccia la realtà. E il governo italiano, che evita perfino di pronunciare quella parola e si rifiuta di riconoscere la Palestina, si sta collocando dalla parte sbagliata della storia.

Il governo italiano rifiuta di riconoscere lo Stato palestinese. Se non ora, quando?
Il riconoscimento non è un gesto simbolico: è un atto politico concreto, che può aprire spiragli di pace. Dire “non è il momento” significa rinviare sempre e non scegliere mai. Ma se non ora, quando? Se non davanti a un genocidio sotto gli occhi del mondo, quando sarà il tempo giusto? Altri Paesi europei – Spagna, Irlanda, Norvegia – hanno avuto il coraggio di rompere l’immobilismo. Non basta, ma manda un messaggio chiaro: i palestinesi non sono un problema di sicurezza, sono un popolo con diritti e dignità. L’Italia invece resta immobile, scegliendo una linea che la isola sul piano internazionale e la mette dalla parte sbagliata. Lo abbiamo sentito nelle parole della presidente Meloni, che poche settimane fa ha detto che il riconoscimento sarebbe “controproducente”. È una dichiarazione gravissima: senza uno Stato palestinese con pieni diritti non ci sarà mai pace. Rifiutare il riconoscimento significa accettare l’occupazione permanente, le colonie, la cancellazione di un popolo. E significa anche ignorare le tante israeliane e gli israeliani che non accettano questa deriva, che protestano in piazza, che subiscono arresti e repressione per dire no alla guerra e chiedere un futuro fondato sull’uguaglianza dei diritti. Il loro coraggio dovrebbe rafforzare la nostra responsabilità. Come Arci e Acli abbiamo scritto insieme che non ci rassegniamo al silenzio. Le nostre associazioni rappresentano mondi diversi ma condividono la stessa convinzione: pace e giustizia sono inseparabili, e senza uguaglianza di diritti non ci sarà mai pace duratura. Ecco perché insistiamo: il tempo è adesso. L’Italia deve riconoscere subito lo Stato di Palestina, sostenere sanzioni contro Israele, lavorare per un cessate il fuoco permanente. Non è una scelta di parte: è l’unica coerente con la Costituzione e con l’articolo 11 che ripudia la guerra. O si sta da una parte – quella del diritto, della pace, della democrazia – o si sta dall’altra – quella dell’autoritarismo, della guerra e del riarmo.

28 Agosto 2025

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