La biografia dell'artista
Ornella Vanoni: le mille vite dell’artista tra genio e pazzia
Il teatro con Strehler, l’idea calvinista (e milanese) di un’esistenza laboriosa, gli amori intensi e le cadute rovinose, la malattia e la resurrezione. I tanti volti di una cantautrice senza tempo
Spettacoli - di Victoria Surliuga

Per il pubblico che la segue da sessant’anni, e per coloro che da poco hanno scoperto il suo immenso repertorio, Ornella Vanoni è sempre stata una voce, una di quelle poche, ampie voci che ascoltate una volta non si dimenticano più. Chi l’ha vista in teatro, e non solo ai suoi inizi, quando lavorava con Strehler, sa che sul palco la sua è una presenza. E chi ultimamente l’ha vista in televisione sa che dietro alla voce e alla presenza c’è un’intelligenza irriverente, sarcastica ed acuta, e che non ha mai smesso di evolversi coi tempi. In Vincente o perdente, uscito ora per La Nave di Teseo, scritto insieme a Pacifico, si ascolta la sua voce, si percepisce la sua presenza trasferita nelle parole che raccontano una vita di successi accompagnati da difficoltà, lotte e conquiste professionali e personali, un pensiero mai disgiunto da un’autentica emotività.
Molti anni prima di divenire una personalità televisiva e mediatica, Ornella Vanoni si è fatta conoscere come attrice teatrale di talento, formatasi al Piccolo Teatro di Milano, poi come cantante impegnata, attrice di cinema e scrittrice di racconti. La sua è una carriera in cui nulla è stato lasciato al caso. Anche i suoi elegantissimi look sono il risultato di meditate collaborazioni con stilisti quali Armani, Ferré e Versace, che hanno creato molti degli abiti da lei indossati nella sua carriera concertistica, ultimamente culminata, nel 2024, con gli spettacoli al Teatro degli Arcimboldi e alle Terme di Caracalla. Vincente o perdente è il titolo “americano” di una biografia dall’immediatezza tutta italiana, senza filtri. In 24 capitoli (con un capitolo di Pacifico e l’indice dei nomi), Vanoni si presenta con uno stile chiaro e diretto, in frasi concise come i versi delle sue canzoni, che arrivano dirette al dunque. Vi troviamo pensieri sul vivere insieme e sulla solitudine, sulle emozioni che l’hanno unita ai suoi compagni, sull’amore per suo figlio Cristiano, i suoi nipoti, i suoi genitori, e l’affetto per i suoi compagni e collaboratori, da Strehler a Paoli, da George Benson e Steve Gadd, Herbie Hancock, Toquinho a molti altri.
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C’è del rigore calvinista nel dividere il mondo tra chi vince lavorando, concentrandosi, senza perdere tempo, e chi perde disperdendosi e infine rinunciando. Sarà forse l’educazione milanese (Pasolini diceva che Milano è l’unica città protestante in Italia) ad averle suggerito questa divisione tra vincere e perdere, che però troppo netta non può essere, perché nella scalinata della vita è facile incontrare entrambi i destini: “Ho sbagliato, ho trionfato, ho guadagnato, ho subito un tracollo. Vincente o perdente. Tutte e due le cose, alternatamente” (152). Ed è proprio quando si pensa di aver capito il senso della vita che bisogna essere pronti ad affrontare il naturale corso dell’esistenza: “Più che altro ti dici: […] ‘Ma proprio adesso che mi sembra di aver capito tutto? Proprio adesso me ne devo andare?’” (153). Il libro si apre con l’esortazione di Strehler, “Ama, Ornella, ama!” (9), e Ornella si chiede, “Perché mi ha detto così? Cosa voleva dirmi?” (10). La risposta poteva essere: “Amati, Ornella. Amati! Sapeva [Strehler] che solo chi si ama fa, procede. Chi non si ama non fa” (10). Era “più uno scossone che una domanda” (155).
Ornella Vanoni è voce così come è teatro. “Ho passato così tanti anni in teatro a imparare, a rubare, che mi viene naturale dirigere uno spettacolo” (169). Sua è la regia degli spettacoli all’Arcimboldi, con i vestiti/costumi di Armani e l’idea di allargare le braccia sul palco per “prendere” la scena. La sua formazione nel teatro classico è quella che le fece dire a Silvio Berlusconi, che le aveva offerto di apparire al Teatro Manzoni, da lui rilevato: “Lo ringraziai, ma gli dissi che non era il tipo di spettacoli che prediligevo – era teatro borghese, consolatorio – e che quindi capivo benissimo perché l’avesse comprato. Anche lì non apprezzò” (139-140).
Perché preferisce cantare il testo prima con le scarpe, poi a piedi nudi? “Per sentire il contatto del corpo con il suolo e ascoltare la vibrazione che ti percorre” (57) per riuscire a entrare meglio nel testo, nelle parole e nella dizione, come ha fatto al Teatro Colosseo di Torino nel 2014 e nei tre concerti del 2024.
Ma chi è, in fondo, Ornella Vanoni? “Determinata e titubante, egoista e dedita. Bisognosa di baccano e compagnia, ma sempre pronta ad includere la solitudine come pausa di riflessione e grata al silenzio, in cui tutto quello che si agita finalmente si posa” (12); “Ci diamo un’ultima occhiata nello specchio, e poi mandiamo in giro la nostra versione più riuscita” e resta la domanda molto teatrale, e molto pirandelliana: “È una finzione, quindi, e tutti siamo impegnati in una gigantesca e perenne messinscena?” (12-13). Come appare dal libro, Strehler resta la figura fondamentale non solo per la formazione artistica (la spinse a recitare partendo da classici come L’idiota di Achard) ma anche per la sua maturazione come artista autonoma e sempre in trasformazione. Ammette di non aver mai avuto il progetto di una relazione sentimentale che durasse. Il “per sempre” si applica all’evoluzione della sua visione della vita, al coraggio nell’affrontare la malattia del figlio, le difficoltà del loro rapporto, ricostruendo una famiglia con lui e i due amati nipoti: “E dalla vita non ho ricevuto nient’altro di così prezioso” (45).
Sono importanti le parole legate alla depressione (“Mi inquietano di più i malanni nascosti, i guasti dell’anima. Perché li conosco, me li sono trovati addosso, cicatrici e lividi invisibili, che nemmeno ricordi come te li sei procurati”, 28). L’imperativo, però, resta quello di procedere nella vita, “Di andare a vedere” (31). Tantissimi e gustosi gli incontri: con David Bowie che fu gentilissimo: “Proprio come sono gli inglesi, che osservano meticolosamente l’etichetta ma sempre con humour, sempre consapevoli che è tutta una messinscena” (134); con Charles Aznavour: “Abbiamo duettato, ed era semplice, naturale, come succede sempre con le persone di grande talento” (134), con Brecht e perfino con Karajan al telefono, quando cercava Strehler.
Poi l’amicizia con Patty Pravo (“Matta e irresistibile. È un’illusionista, ti porta nel suo mondo. Inventa un sacco di storie strampalate, ma le dice con tale sicurezza che il fatto che siano realmente accadute diventa ininfluente”, 124), l’apprezzamento per le sue poetesse preferite (Vian Lamarque, Wisława Szymborska e Patrizia Valduga) e, cosa decisiva per chi la conosce solo oggi, l’apprezzamento per gli artisti più giovani, Calcutta, Mahmood, Madame e Marracash. Più che il libro di una vita, Vincente o perdente è il libro di molte vite in una.
Ornella Vanoni, con Pacifico. Vincente o perdente. La Nave di Teseo, maggio 2025, 224 pp. ISBN 978-88-346-2074-8.