L'ex europarlamentare
Intervista a Massimiliano Smeriglio: “Roma capitale del disarmo, facciamo come Nicolini”
«Dovremmo fare una cosa simile, rifuggire dalla militarizzazione del territorio, con la guerra che ordina il discorso, intossica e crea nemici immaginari»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Massimiliano Smeriglio, già europarlamentare, Roma l’ha vissuta e frequentata in ogni suo angolo. Da politico, da amministratore, è stato vicepresidente della Regione Lazio, e da scrittore di romanzi. Con amore critico e con la passione civica di chi non si arrende al degrado, morale, urbanistico, materiale, politico, della Capitale. Sentimenti che hanno permeato anche il suo ultimo romanzo, Se bruciasse la città (Giulio Perrone Editore). Un discorso da sviluppare ora che Smeriglio è il nuovo assessore alla Cultura nella giunta capitolina.
Roma, Capitale della cultura. È un sogno irrealizzabile?
Roma è Capitale culturale mondiale per destino, lo è per la qualità e quantità di stratificazioni, di epoche, manufatti, paesaggi, occasioni di entrare in relazione con la bellezza, quella grande. Lo è per storia, antica, moderna, contemporanea. Roma è una città immensa e fragile, il tema è come governare con sapienza un luogo vivo, dove, oltre ai turisti, oltre ai pellegrini che aspettiamo con ansia per il Giubileo, vivono lavorano studiano, nell’area metropolitana, quattro milioni di cittadini e cittadine che, spesso, non hanno la possibilità di godere a pieno della bellezza come bene comune pubblico e gratuito. Piuttosto inciampano nelle distanze, nelle difficoltà di accesso, fisiche e anche culturali, noi è su questo che dobbiamo lavorare. Una città che torni ad essere nella piena disponibilità di chi la abita. Le grandi trasformazioni in corso, i cantieri, la fatica attuale a cui sono sottoposti i cittadini servono a raggiungere questo obiettivo: riconciliare Roma con i romani e le romane. E le politiche culturali possono essere una leva straordinaria per interpretare i nessi, le necessità, i desideri, i bisogni dei cittadini. Così come esiste il Servizio Sanitario Nazionale servirebbe il Servizio Culturale Nazionale. Lavorare sulla riappropriazione dei luoghi, sulla coscienza di luogo, investire su forme materiali e immateriali di comunità agenti per farsi carico di una contro narrazione capace di rompere la gabbia della solitudine e del consumo. L’attuale forma di capitalismo sussume la vita per intero, le emozioni, spinge al consumo di beni non indispensabili e alla solitudine; nella solitudine le persone sono indotte a consumare tutto ciò che sostituisce la relazione. Lavorare sulla relazione, sulla dimensione collettiva è un nostro obiettivo. Sulla relazione e su una nuova dimensione della sobrietà e del limite. Persino di una certa spiritualità laica. E poi il dialogo, Roma capitale del dialogo e del disarmo. In un mondo in cui vige l’emergenza bellica sarebbe un bel segnale. Far dialogare culture oggi schierate su trincee opposte. La cura di ciò che ci circonda e dunque di noi stessi e del pianeta può essere una traccia di lavoro.
Per chi ha una certa età e non è smemorato, quando si parla di grandi assessori alla Cultura di Roma, il pensiero va decisamente a Renato Nicolini, l’inventore dell’Estate romana e di tanto altro ancora. Un punto di riferimento?
Nicolini e anche Borgna sono un punto di riferimento per chiunque abbia a cuore la potenza delle espressioni culturali capaci di parlare all’anima delle persone e innescare un processo di trasformazione. Restano entrambi un riferimento soprattutto perché sono stati capaci di ribaltare il paradigma, abbattere le barriere tra le diverse città di Roma, combattere le disuguaglianze sociali misurabili anche dalla distanza dal centro storico e dalla quantità di servizi culturali presenti in un quartiere. Connettere, trasformare lo spazio pubblico, mischiare l’alto e il basso, dare un senso profondo alla godibilità dell’effimero restano obiettivi per chiunque operi a Roma mettendo al centro la leva culturale. Per Nicolini era importante Liberare Roma, non solo da chi la teneva in uno stato di minorità, ma anche e soprattutto liberare le energie migliori della città, fuori dalla dimensione formale del già visto e del già fatto. Senza sfociare nel dilettantismo, avendo cioè cura della necessaria qualità delle produzioni culturali diffuse. Oggi poi che tutto appare effimero, connesso a linguaggi veloci ed estemporanei, abbiamo anche il tema inverso, come coniugare cultura e profondità, politiche culturali e complessità, produzioni creative e stupore, una forma di auto educazione a saper cogliere la meraviglia che ci circonda. Il meraviglioso urbano lo chiamava Nicolini che ha sfidato la logica dell’emergenza, della città blindata e chiusa di fine anni settanta, ha vinto la sua sfida aprendo e rifuggendo dalla militarizzazione del territorio. Dovremmo fare una cosa simile, con la guerra che ordina il discorso, intossica e crea nemici immaginari. Magari a partire da una serata omaggio a Renato, una serata lunga con Napoleon a Massenzio, il ballo a Villa Ada, il circo in centro e il festival della poesia. Sarebbe una cosa bella su cui lavorare.
Come ridefinire, quanto a consumo e opportunità culturali, il rapporto tra centro e periferie?
Intanto provando a cambiare l’ordine del discorso, non tanto il consumo quanto la possibilità di fruizione e conservazione. Una cosa che consumiamo tende ad assumere un profilo di mercato e a profilarsi come una merce, dunque a consumarsi, deperire. La questione centro e periferia va ribaltata. Noi abbiamo bisogno, in una città enorme in cui le persone fanno vita di quartiere per scelta o necessità, di radicare sul territorio servizi culturali e sociali. Il lavoro fatto da Andrea Catarci in questi anni sui poli Civici, così come indicato da realtà importanti come Spin Time, e la città dei quindici minuti è prezioso e bisogna continuare e insistere per sedimentare nuovi servizi poggiati sulla piena responsabilità e il protagonismo dei cittadini. Ma tutto questo non basta. C’è un altro tema a cui dovremmo dedicare scelte, risorse ed attenzioni. Lo chiamo il diritto alla riappropriazione della città storica. Sono convinto che moltissimi romani, ed il numero aumenta allontanandoci dal centro e abbassandosi il grado di scolarizzazione, non hanno mai messo piede, non dico a San Luigi dei francesi, ma al Colosseo o ai musei capitolini. Penso che dobbiamo mettere in campo un grande progetto di riappropriazione e della possibilità dei cittadini di fruire della grande bellezza. Del valore d’uso della bellezza. Portarli fisicamente, prenderli sotto casa, nelle scuole, nei centri anziani, insieme ai Comitati di quartiere, le associazioni. Farli sentire a casa loro. Riannodare i fili della memoria della città storica e anche quelli delle memorie intime di famiglie di popolo che solo fino a trenta anni fa vivevano ancora tra Campo de fiori e il Governo vecchio. Vorrei concentrarmi su questo, non solo servizi diffusi ma anche una grande invasione del centro della città fatta di cittadini e cittadine. Vincere la logica della separatezza, superare i confini invisibili tra strade e quartiere che poi in ultima istanza sono confini di classe. Da ultimo indagare e far emergenze l’identità migliore della città di popolo, a partire dalla valorizzazione della memoria e dell’antifascismo.
Da Roma all’Italia. Il voto in Liguria è più di un campanello d’allarme per la sinistra?
Sono avvenute cose importanti, il risultato del Pd di Schlein è molto positivo, così come quello di Avs e delle forze civiche. Mentre si paga la transizione in corso del Movimento 5 Stelle che andrebbe sostenuta e non bombardata ogni giorno. Andrea Orlando, inoltre, ha fatto un lavoro straordinario in assenza del Campo largo, anzi camminando su di un campo minato fatto di polemiche e folli competizioni interne, tra partiti della medesima coalizione e all’interno dei partiti. Così non vinceremo mai. Penso sia mancato un vincolo solidale di coalizione, penso sia stato un errore non ingaggiare e costruire meccanismi di democrazia partecipata, far sentire la nostra gente parte di un progetto aperto, contendibile, criticabile. Sono mancate le primarie, incomprensibilmente scomparse dall’agenda progressista. Il campo si costruisce con le persone. Meglio un po’ di movimento, che decisioni assunte a tavolino. Senza un ingaggio di popolo non possiamo farcela. Per la destra affidarsi ad una leadership verticale salvifica è parte del loro Dna, per noi non funziona così. La nostra gente vuole partecipare, dire la propria. Partecipare, contare, sentirsi parte attiva di un processo di cambiamento e non soggetti passivi chiamati solamente a votare ogni cinque anni. Non funzioniamo così e questa è una buona notizia. E ad oggi nessuno lavora con responsabilità e determinazione alla stabilizzazione e alle regole d’ingaggio di una alleanza capace di contendere sul piano valoriale e programmatico il Paese alle destre. Questa assenza, questo elefante nella stanza, incide negativamente anche sulle elezioni locali o regionali. Senza una dinamica aperta, senza intellettuali, senza una chiamata in correità alla società civile organizzata, senza cedere sovranità e potere, la sinistra non può farcela. Anche quando vanno bene le singole liste.
Di nuovo si elucubra sui campi: larghi, medi, coesi…Lei come la vede?
Il tema è che il Campo non c’è, come cantava Lindo Ferretti qualche anno fa, Fedeli alla linea, la linea non c’è. Ad oggi il Campo, l’alleanza sono astrazioni. Feticci. Il tema è come inverarli concretamente. Ad esempio, a me pare incredibile assistere alla vittoria della destra che punta tutto sulla credibilità di un sindaco. I sindaci, le esperienze di governo locale sono state per anni la nostra storia migliore, il genius loci che ha permeato la sinistra, che gli ha permesso di avere un contatto immediato con la realtà. Rutelli, Veltroni, Pisapia, Bassolino, Russo Iervolino, per stare ai nomi più autorevoli. O che gli ha permesso di prendere una valanga di voti, come nel caso di De Caro. Perché non coinvolgere i nostri migliori presidi territoriali ad un tavolo permanente per costruire dal basso la coalizione, oltre i vincoli nazionali? Penso che Gualtieri, Manfredi, Sala, Lepore, Todde, Zedda, aggregando anche le migliori esperienze delle aree interne, che sono tanta parte dell’Italia profonda, potrebbero benissimo essere chiamati a dare un contributo alla costruzione della nuova alleanza progressista. Essendo, spesso, espressioni di coalizioni plurali vincenti magari qualcosa di utile potrebbero dirlo e per questa via smuovere una situazione che pare ingessata, uno stallo pericoloso. Si può continuare a migliorare il consenso elettorale delle singole forze politiche senza riuscire a costruire una coalizione vincente. Insomma, un altro modo per intendere la costruzione della coalizione è possibile e necessario. E se il campo non c’è proviamo ad inventarlo. Magari qualcosa succede.