La presidente di Emergency
“A Gaza livello di devastazione mai visto, nella Striscia si è persa l’umanità”, parla Rossella Miccio di Emergency
«La “zona umanitaria” si rimpicciolisce sempre più e le evacuazioni sono quotidiane». Ma non solo Ucraina e Gaza: 54 conflitti infiammano il mondo
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
C’è chi filosofeggia su una tragedia comodamente seduto in uno studio televisivo e chi quella tragedia la vive sul campo, cercando di salvare, ogni giorno, centinaia di vite umane. È il caso di Emergency, di cui Rossella Miccio è la Presidente nazionale. L’Ong fondata da Gino e Teresa Strada ha vissuto tutti i conflitti che hanno segnato gli ultimi quarant’anni. Sempre dalla parte delle tante e tanti che pagano il più alto tributo di sangue alle guerre: i civili. E se Emergency, attraverso la sua Presidente, afferma che in Palestina è morta l’umanità, potete crederci. Perché quella morte gli eroi in camice bianco l’hanno vista riflessa negli occhi di donne e bambini uccisi a Gaza da bombe e malattie.
L’apocalisse di Gaza: morte, distruzione, malattie. Come racconterebbe ciò che sta avvenendo da anni, e non solo dal 7 ottobre 2023, nella Striscia?
La racconto con le parole, la testimonianza dei colleghi che sono riusciti a entrare a Gaza dopo quasi otto mesi di tentativi. Una strada tutta in salita. Uno dei due colleghi che è riuscito a entrare aveva già lavorato anni fa a Gaza e lui ci ha detto di non avere mai visto, mai, nulla di paragonabile alla distruzione, alla desolazione che ha riscontrato entrando a Gaza. Fino ad arrivare a quella che è la “zona umanitaria” che Israele ha concesso, che è meno del 20% del territorio della Striscia, dove c’è una situazione opposta.
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Vale a dire?
Un estremo affollamento, dove migliaia di famiglie si sono rifugiate vivendo – se di vita si può parlare – con mezzi di fortuna sulla spiaggia, in quanto quello è l’unico lembo di terra che è rimasto, anche se viene continuamente ridotto e minacciato. Gli ordini di nuove evacuazioni sono quotidiani, anche di aree nella “zona umanitaria”. C’è un senso di precarietà totale, di perdita di qualsiasi possibilità di speranza. Non si vive neanche alla giornata, si vive all’ora, sperando di riuscire a trovare un po’ di acqua potabile da poter bere, qualcosa da mangiare, dei farmici per chi ne ha bisogno, i tantissimi pazienti con malattie croniche completamente abbandonati a se stessi, in una situazione di caos totale. Per fare due chilometri in macchina ci vuole almeno un’ora, con il sottofondo angosciante dei droni, sette giorni su sette. Una situazione inimmaginabile, difficile da descrivere per chi non la vive.
La maggioranza dei 2,3 milioni di gazawi, è composta da donne, bambini, adolescenti. I più indifesi tra gli indifesi.
È un immane massacro di civili inermi che nulla ha a che vedere con il terrorismo e con le ragioni – ammesso che ce ne siano – di questa nuova guerra. È una generazione completamente decapitata, cancellata. Non so quanto ci vorrà per la popolazione gazawi per ricostruirsi e, soprattutto, per recuperare un senso di fiducia nel futuro. Al di là delle già gravissime violazioni dei diritti, della mattanza infinita di donne e bambini, quello che si sta seminando, e che sarà sempre più duro da contrastare in futuro, è l’odio che lasciano le bombe. Non so quale potrà essere il futuro della popolazione di Gaza, quando quella popolazione potrà finalmente ritrovare una parvenza di pace, di tranquillità per potersi ricostruire come società. Ciò che più fa impressione è la sistematica distruzione di ogni possibilità di futuro, oltre al presente.
Tra le tante testimonianze dal campo che lei ha ricevuto in questi giorni, ce n’è una che l’ha colpita particolarmente?
Sentire un collega esperto come Stefano Sozza, che è il nostro capo progetto in quell’area, rimanere senza parole per il livello di devastazione e di disumanità incontrati. Perché l’umanità si è persa a Gaza. Non sappiamo più cos’è. Il suo racconto mi ha molto colpita. Per quanto si possa essere abituati a vivere e operare in zone di conflitto, per arrivare a dire che quello che sta succedendo qui non si è mai visto da nessun’altra parte, che la popolazione vive in condizioni disumane, che la disperazione e la distruzione è ovunque, vuol dire che davvero si sono rotti tutti gli argini e che abbiamo superato tutti i limiti del tollerabile. E non si sa come e se sarà possibile tornare indietro.
È possibile che nel 2024, in un lembo di terra come quello, si possa essere colpiti dalla poliomielite?
Questo è un altro degli effetti collaterali delle guerre. Quelli diretti sono i morti, i feriti, la distruzione di strade e infrastrutture… Quelli indiretti sono il riportare indietro la popolazione a livelli di bisogni sanitari che si pensavano ormai superati. Questo lo vediamo dappertutto, in particolare a Gaza dove c’è una estrema concentrazione di popolazione. Il batterio della polio c’è sempre stato lì, ed è sempre stato monitorato. Ma non si era mai arrivati alla malattia conclamata. L’esserci arrivati nonostante il monitoraggio e l’attenzione, vuol dire che la situazione è fuori controllo e che non basta più quello che era sufficiente qualche mese fa per garantire un livello minimo di assistenza alla popolazione. A metà agosto 2024, un team di Emergency è entrato a Gaza per aprire una clinica che offrirà primo soccorso, stabilizzazione di emergenze medico-chirurgiche e trasferimento presso strutture ospedaliere, assistenza medico-chirurgica di base per adulti e bambini, attività ambulatoriali di salute riproduttiva e follow up infermieristico post-operatorio. Contiamo di poter iniziare ad operare entro settembre. Negli scorsi mesi, in attesa dell’autorizzazione definitiva ad entrare nella Striscia, abbiamo lavorato per definire il progetto e attivare un coordinamento con le agenzie delle Nazioni unite e altri partner presenti sul territorio.
Tra le testimonianze più drammatiche che vengono dagli operatori sanitari che eroicamente operano ancora a Gaza, vi sono quelle di donne costrette a partorire in condizioni igieniche più che precarie, addirittura senza anestesia.
È diventata la quotidianità a Gaza. Quasi il 60% delle strutture sanitarie della Striscia è fuori uso. Questo vuol dire non solo che non hai più la struttura, ma neanche i materiali per poterle far funzionare. Tantissimo è stato il personale sanitario che ci ha rimesso la vita in questo conflitto, così come i giornalisti. Tutti fattori che hanno un impatto diretto sulla limitatezza dell’accesso e su quale tipo di cura è possibile fornire in un tale contesto. E così ti trovi non soltanto le donne a partorire in condizioni che definire disumane è un eufemismo, ma anche a fare tanti interventi chirurgici senza anestesia. Si pensi anche alle persone che hanno bisogno di farmaci salvavita, l’insulina per i malati di diabete, ad esempio. Medicine che non sono disponibili, e quindi sofferenze che si aggiungono che non sembrano direttamente conseguenza della guerra ma che in realtà lo sono.
Emergency è presente in ogni luogo dove la guerra produce morte e devastazione tra la popolazione civile. Spesso, però, queste tragedie passano nel dimenticatoio. Sta avvenendo in Palestina, come in Sudan, dove Emergency è particolarmente attiva, nel martoriato Yemen, nella devastata Siria, nell’abbandonato Afghanistan. Che mondo è quello che si dimentica o ignora queste tragedie?
Nel mondo si contano oggi circa 56 conflitti attivi. Non so di quanti di questi sentiamo parlare. Conflitto attivo vuol dire che ci sono persone normali, come noi, che in tante parti del mondo pagano il prezzo di queste guerre nel disinteresse totale. Questo è un segnale molto preoccupante, non solo per le popolazioni che le guerre le subiscono, ma anche per noi che ci consideriamo un po’ lontani da quei contesti e quindi pensiamo di poterci permettere il lusso di disinteressarcene. Non è così. Ce l’ha insegnato la pandemia, che viviamo tutti sulla stessa terra. Ce l’insegna il cambiamento climatico. Tutto quello che succede su questa terra ci riguarda, tutte e tutti. In primis, il destino di persone civili come noi che subiscono le conseguenze della guerra. Questo disinteresse fa male anche a noi. Lo abbiamo visto anche con l’Ucraina. La guerra bussa alle porte di casa senza che ne accorgiamo, in un contesto dove fino al giorno prima si viveva in un contesto normale. Questa cosa a me preoccupa molto, perché vuol dire che stiamo perdendo il senso di essere umani, di far parte della stessa umanità. Sono sempre stata convinta, e non per questioni teoriche, ma perché l’ho visto nella pratica, che non è negando i diritti altrui che si tutelano i propri. È condividendo il più possibile i diritti che si garantisce anche la propria sicurezza. Di questa indifferenza ne pagheremo le conseguenze anche noi in questa parte di mondo. Noi che abbiamo il privilegio, non il merito, di non vivere la guerra quotidianamente.
Per tornare a Gaza. Le parole hanno un peso. Perché c’è ancora chi in Italia, penso ad una certa stampa, s’inalbera, s’indigna, grida allo scandalo quando c’è qualcuno che dice, scrive, testimonia, che a Gaza è in atto un genocidio?
Probabilmente perché non stanno uccidendo i loro figli. Non trovo altra spiegazione. Mi domando tante volte, se nemmeno quello che sta succedendo a Gaza, che è sotto gli occhi di tutti, se neanche 16mila bambini morti in dieci mesi, riescono a suscitare una reazione che porti alla fine delle ostilità, che cos’altro deve succedere? Questo mi spaventa molto, perché vuol dire che stiamo perdendo la capacità di curarci, di prenderci cura di noi stessi come società. E questo è un segnale molto, molto grave.
Quando una persona, come gli operatori di Emergency, guarda negli occhi un bambino o una donna in quelle condizioni, a Gaza e in altri inferni in terra, cosa prova?
Quando è capitato a me, ho avuto una doppia reazione. Da un lato, tanta rabbia. Perché capisci che ci sono vite di serie A e di serie B, vite che non hanno valore, e quando sei in quei contesti, ti chiedi per quale motivo la mia vita ha più valore di quel bambino che hai davanti. Non lo capisci. E dall’altra, la consapevolezza di avere almeno la possibilità, a differenza di tante altre persone, di poter fare qualcosa per cambiare un po’ la realtà, per lenire dolore, ferite, non solo fisiche. Questo un po’ ti rimette in pace con te stesso se non con il mondo, perché dici dentro di te “il mio pezzettino lo sto facendo, continuo a farlo e per fortuna riesco a farlo perché non sono da sola ma perché ci sono tante altre e altri che condividono la stessa scelta e mi permettono di stare qui, in questo momento, ad aiutare persone che hanno bisogno”. Uno stimolo ad andare avanti nell’azione di cura ma anche in quella di advocacy perché questa malattia che l’uomo ha di fare la guerra venga sradicata, come la polio a Gaza.