Il saggio di Daniele Negri
Giacomo Matteotti il giurista: tra giustizia sociale e libertà il mito ne ha oscurato i meriti nel campo del diritto
Il mito ne ha oscurato i meriti nel campo del diritto: nei suoi studi riflettè profeticamente sulle condizioni delle carceri e la parzialità dei pm
Editoriali - di Francesco Petrelli
Il recente volume curato dal professor Daniele Negri, dell’Università di Ferrara (Giacomo Matteotti fra diritto e politica), ha il merito straordinario di aver recuperato la dimensione di Matteotti come giurista.
Una dimensione ricca di attualità e di originalità che la sua drammatica fine per mano del fascismo, ha finito con l’oscurare del tutto. Come ha ricordato il professor Stefano Caretti, uno dei massimi studiosi di Matteotti, “il mito aveva soverchiato l’uomo. I suoi affetti, i discorsi politici, i vasti studi, ignorati”.
E con questi soprattutto gli studi di diritto, il cui rinnovato approfondimento, per merito di questa pubblicazione, offre spunti di grande interesse.
Giacomo Matteotti esordisce nel 1910 con uno volume intitolato La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici. Studio modernissimo e originale, ampliamento della sua tesi di laurea dedicata a questo spinosissimo problema giuridico e criminologico, nel cui sviluppo l’autore si sottrae alle sirene del positivismo allora in voga, sebbene la sua estrazione politica lo vedesse quasi naturalmente inserito in quel filone ideologico.
Forse intravede nelle sue applicazioni giuridiche nuovi rischi per la libertà dell’individuo. O coglie forse nel determinismo positivista una qualche negazione della dignità dell’uomo, da rivendicarsi all’individuo, secondo il giovane studioso, anche nella sua scelta criminale, nella quale in ogni caso agisce un “fattore personale permanente”.
Fra scuola classica e positivismo, che all’epoca si contendevano la teoria del diritto, Matteotti sceglie dunque una via indipendente, moderna ed originale.
Affronta lo studio delle statistiche sempre in una chiave valoriale, come contributo alla conoscenza dell’uomo, piuttosto che a una sua meccanica classificazione.
Anche nello studio della recidiva i dati statistici aprono infatti ad una dimensione umana più vasta, caratterizzata dalla complessità delle possibili esperienze, dal tipo di reato al miglioramento delle condizioni delle carceri, dal fattore socio-economico al fattore tempo.
Sebbene mosso da una forte carica ideale, appare al tempo stesso alla ricerca di un metodo intriso di concretezza. Sarà così nel precoce impegno politico nelle sue terre del Polesine, laddove i compagni socialisti gli rimproverano di frequentare troppo le aie e i contadini, piuttosto che il partito e la città.
Più la spinta in lui si fa radicale, etica, quasi religiosa, più il suo approccio si fa pragmatico e razionale. Il diritto e l’impegno politico e civile, si saldano assieme, spingendolo allo studio dei contratti agrari e dei patti, ad istruire i contadini circa i loro diritti e a insegnare loro a tenere testa ai padroni con gli argomenti della legge. Così intende il suo impegno.
Forse è anche questa una possibile chiave di lettura dell’evolvere dei suoi interessi, dalla teoria alla prassi. Dal suo esordio negli studi sostanzialistici più astratti, al ripudio di una “scienza da tavolino”, alla precoce attrazione verso il diritto processuale penale, proprio negli anni che seguono al varo, assai contrastato, del nuovo codice del Guardasigilli Finocchiaro-Aprile (1913).
“Libero da ipoteche in grado di offuscarne l’intransigenza intellettuale”, Matteotti sviluppa le sue critiche anche all’interno della diatriba su questo nuovo codice divampata fra il suo maestro Alessandro Stoppato e Luigi Lucchini.
Il diritto processuale gli apre nuovi orizzonti di vivacità e di modernità. Al 1917 risalgono i suoi studi sulla sentenza e sulla nullità ed in quegli stessi anni si porrà l’ambizioso obiettivo di sviluppare una vasta opera in due o tre volumi, sulla controversa natura e sui poteri della Cassazione, di cui sappiamo solo dalle sue lettere e dagli studi d’archivio intrapresi nel suo laboratorio.
È nel 1919 che scriverà poi quell’articolo lungimirante, che pare come una luce gettata avanti di cent’anni oltre il secolo breve, fin nelle controversie e nelle polemiche dei giorni nostri, seccamente intitolato Il pubblico ministero è parte.
Si tratta di un contributo dal contenuto attualissimo e folgorante, nel quale si dimostra come sia del tutto irrazionale immaginare il pubblico ministero come una “parte imparziale”, così come oggi ancora lo si vorrebbe rappresentare.
Matteotti contesta vivacemente l’assunto secondo cui il pubblico ministero “agisce nel processo per fini di giustizia e per un interesse collettivo o generale, che lo avvicina più al giudice che alle parti”.
E si chiede argutamente perché mai “l’interesse difeso dalle parti debba essere esclusivamente personale e non possa anche essere collettivo o pubblico”.
Dà prova anche qui di quella “serrata logica argomentativa” che caratterizzerà il suo lavoro, sia di giurista che di parlamentare, sempre orientato alla secca trama della razionalità, piuttosto che a una chiave retorica.
E così conclude dimostrando che anche quando il pubblico ministero “richieda l’assoluzione dell’accusato o la esenzione da pena, con ciò egli non agisce “in favore dell’imputato”, come empiricamente si dice, e neppure per quei fini di giustizia superiori cui si ispira il giudice, ma sempre per gli interessi della collettività; la quale vuole, non la condanna a ogni costo anche dell’innocente, ma la persecuzione di colui che realmente l’offese”.
Oggi si direbbe – per rispondere ad alcune incursioni svolte contro la separazione delle carriere – che non vi è bisogno di alcuna misteriosa “cultura della giurisdizione” per chiedere l’assoluzione dell’innocente, bastando far pratica di quel semplice buon senso collettivo.
Anche in questo breve scritto lungimirante traspare la chiarezza di una visione nella quale la separazione dei poteri si riflette nella simmetria del processo di parti e nella quale il rapporto fra l’autorità dello stato e la libertà del cittadino si deve perennemente risolvere in favore di quest’ultimo.
Risulta forte dai suoi scritti la fiducia nella legalità sostanziale e processuale, nella tutela offerta dalla norma e dalla razionalità del giudizio. Pone in guardia, anche qui con straordinaria antiveggenza, dal rischio che la giurisdizione venga soppiantata dall’espandersi del potere esecutivo in funzione di “giudice” e che questo possa risolversi in una manomissione dei diritti della persona.
Basti qui pensare al dilagare delle “moderne” interdittive prefettizie, per cogliere la lucidità di quelle premonizioni. Nel suo pensiero e nel suo agire, Matteotti tiene unita alla vocazione riformista, tutta volta all’affermazione dell’uguaglianza e della giustizia sociale, una profonda fede liberale nella intangibilità delle libertà dell’individuo.
Una visione modernissima nella quale tutti i diritti civili, politici e sociali dell’uomo, stanno o cadono insieme. La passione politica è per il giovane Giacomo un dovere etico e civico al tempo stesso.
Una passione bruciante che lo tiene spesso lontano anche dalla sua amata Velia, nonostante l’intenso legame che li unisce. Ed è quella stessa passione politica che lo allontanerà da quell’altra sua originaria passione, dallo studio del diritto.
Ma il diritto resta nella sua anima, come una alternativa possibile e costante, come un irrealizzabile ritorno, o forse come una via di salvezza, comunque come un altro modo di intendere la dimensione umanissima e totalizzante del suo impegno.
Come quando scrive a Velia in una lettera del 1921, immaginando da fuggiasco un futuro pacificato che non verrà: “sto orientandomi per vedere quale specie di lavoro intraprendere, subito dopo. Forse la dimenticata Cassazione”. Quell’opera in più volumi, dagli imprevedibili, e forse anch’essi preveggenti, sviluppi, che non sarà da lui mai più compiuta…
*Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane