I numeri delle esecuzioni
Iran, il regime dei mullah che divora corpi umani
Teocrazia misogina, una belva feroce. In meno di un mese ha giustiziato anche donne e minori. Parvin Moussavi, impiccata, era malata di cancro
Esteri - di Elisabetta Zamparutti
Efferato. Parola che ci trasporta dall’umano al bestiale. Aggettivo a cui solitamente ricorriamo per definire l’azione piuttosto che chi la compie. Parliamo di delitto efferato, di omicidio efferato.
Eppure l’atto feroce, che allontana dall’umana comprensione, riguarda chi lo subisce come anche chi lo compie. Efferato è allora il regime iraniano. Nell’elenco dei paesi membri dell’ONU risponde al nome di “Repubblica Islamica dell’Iran”.
Preferisco chiamarlo teocrazia misogina che come una belva feroce con indomita violenza si nutre di corpi umani e di questa ferocia campa.
In meno di un mese, il regime dei Mullah si è preso anche il corpo di donne e minori, giustiziandoli in varie parti del Paese.
Lo scorso 18 maggio, Parvin Moussavi, di 53 anni, malata di cancro, dopo quattro anni di detenzione, è stata impiccata nel carcere di Urmia, nel nord-ovest dell’Iran.
Quando le guardie sono andate a prenderla per portarla al patibolo le detenute che stavano con lei hanno protestato, subendo la spietatezza di quei carcerieri entrati poi nel reparto femminile per pestarle. È stata giustiziata, insieme a cinque uomini, per reati legati alla droga.
A distanza di poche ore, Fatemeh Abdullahi, di 27 anni, è stata impiccata a Nishapur nella parte orientale dell’Iran con l’accusa di aver ucciso il marito che era anche suo cugino ed abusava di lei.
Pochi giorni prima, il 15 maggio, una donna di 33 anni, identificata solo con il nome, Razieh, è stata giustiziata nel carcere di Mashhad, città santa degli Sciiti, nel nord-est dell’Iran.
Nel corso di una vita fatta di stenti, due matrimoni alle spalle, avrebbe soffocato i suoi due figli, di quattro e otto anni, nel 2016. Non riusciva a sfamarli. Si era poi tagliata le vene.
La sorella l’aveva salvata. Alla fine è arrivato il regime misogino a regolare i conti e a prendersi quella vita che forse lei stessa non voleva più.
Questo allontanamento da ogni possibile forma di compassione è andato accelerando quest’anno dalla fine del Ramadan e l’inizio del Nuovo Anno persiano in aprile.
Il regime ha così continuato a saziarsi oltre che dei dolci corpi delle donne, di quelli teneri dei minorenni. Così, mentre impiccavano Parvin Moussavi a Urmia, non molto lontano, nel carcere di Miandoab, legavano il cappio intorno al collo di Ramin Saadat, un curdo di 20 anni, arrestato quando ne aveva 17 con l’accusa di omicidio premeditato.
Il monitoraggio quotidiano di Nessuno tocchi Caino ha documentato 254 esecuzioni dall’inizio dell’anno. Le donne impiccate sono state 11 molte delle quali sono state vittime di abusi o di matrimoni forzati.
I minorenni impiccati quest’anno sono stati almeno 2. Nel solo mese di maggio le esecuzioni sono state 61, quelle di donne 4, quelle di minori una.
Eppure, maggio è da sempre considerato il mese dell’anno legato alla fioritura. Chi pensa a maggio, pensa alla rosa, che di questo mese è simbolo, fiore da sempre associato al femminile e di tutti i fiori la regina.
Parlando con gli amici della resistenza iraniana che di una donna bella e coraggiosa, Maryam Rajavi, hanno fatto la loro leader, ho saputo che a questo fiore è legata una simbologia anche del mondo persiano.
Un mondo in cui maggio, considerato il secondo mese di primavera in Iran, è chiamato con una parola, “ordibehesht”, che in Farsi significa addirittura “Paradiso” tanto è bello. Tra le più importanti opere poetiche persiane c’è poi “Il roseto”.
L’ha scritta Sa’di, mistico musulmano e maestro del sufismo che con sguardo indulgente verso l’umanità considera il giardino delle rose come il luogo dove si raggiunge il grado più alto della contemplazione.
Per tutti noi allora, italiani o iraniani che siamo, maggio è il mese della rinascita e dell’amore. Amore, che mi piace pensare derivi dal latino “a-mors”, alfa privativo e “mors” morte e che quindi letteralmente significhi “senza morte”.
A-mors come inno alla vita. Parola positiva e dunque violentata anch’essa dai Mullah del regime teocratico e misogino iraniano, tanto lontani dal senso di umanità quanto dalla stessa cultura e tradizione del loro Paese.
A questa parola i Mullah, nel loro inferno, hanno voluto infatti tagliare la testa, facendo cadere quella “a” iniziale, per lasciare che ci sia intorno a loro solo “mors”, morte.
È nostra responsabilità non tollerare, non subire passivamente tutto ciò. È nostra responsabilità indignarci. È nostra responsabilità esigere la vita, la bellezza, la grazia, la felicità e il profumo delle rose del mese di maggio.