Rivolta e repressione
Studenti in protesta fanno paura: la politica li manganella, i bambini di Gaza li ringraziano
Ignorare questo fenomeno vuol dire avere una idiosincrasia per la politica. La politica è anche rottura di schemi. Rilancio di grandi valori: la pace è uno di questi. E può persino cambiare i rapporti di forza ai vertici degli Stati.
Editoriali - di Piero Sansonetti
L’America davvero è in subbuglio. Columbia ha trascinato. Sono decine e decine le università occupate. Anche Ucla, la prestigiosissima università di Los Angeles. L’establishment ha reagito con gli arresti. Cioè con la sordità. Ha solo fatto scattare il riflesso condizionato.
Il problema che si è posto è quello sempre semplicissimo che torna, tra i benpensanti, ogni volta che si pone una questione complessa: l’ordine pubblico. Le classi dirigenti americane non si chiedono: cosa sta succedendo? Cosa potrà succedere? Cosa cambia per la società americana? Si limitano a prendere atto che alcuni studenti creano disordini e che bisogna riportare l’ordine.
Chiamano la polizia. La polizia picchia, ammanetta, porta in prigione. L’America, paese sicuramente liberale, ha sempre avuto un problema molto serio con le prigioni. Sapete quanti sono i prigionieri in America: 800 ogni 10mila abitanti.
Da noi, nelle affollate carceri italiane, ce ne sono 100 ogni centomila. Le statistiche ufficiali dicono che gli Stati Uniti sono il paese con più prigionieri al mondo, in proporzione. Ma quello che sta succedendo negli Stati Uniti è un fenomeno sociale e politico che con l’ordine pubblico non c’entra nulla. Gli studenti mettono in discussione lo spirito pubblico. L’idea di potenza. Il rapporto tra politica e guerra. E tra Occidente e resto del mondo.
Il tentativo di ridurre la protesta a una semplice ribellione giovanile è penoso. Manca di ogni base. Di capacità di analisi. È certamente vero che gli studenti che hanno occupato le università sono una minoranza. Ma è sempre così quando nasce un movimento di massa che mette in discussione lo status quo e il senso comune.
Necessariamente è un movimento di minoranza. Se torniamo a mezzo secolo fa, alla fine degli anni 60, e andiamo a contare quanti studenti stracciarono la cartolina o disertarono, o fuggirono all’estero o trovarono escamotage per non partire per il Vietnam, e occuparono le università, e si unirono a Luther King o al Black Panther, di certo scopriremo che all’inizio erano poche migliaia.
Tra loro però c’erano decine di futuri senatori, di grandi imprenditori, di professori universitari, persino un futuro Presidente. C’era il nocciolo duro delle classi dirigenti. Quella della fine degli anni Sessanta fu una rottura dentro la borghesia americana che si ricompose solo dopo molti anni.
Probabilmente sta succedendo qualcosa di simile. E, come fu allora, è qualcosa che non si ferma agli Stati Uniti. Dilaga, si espande. Alla Francia, soprattutto, all’Italia, alla Germania. Anche in Spagna dove addirittura coinvolge i partiti e il governo.
Ignorare questo fenomeno vuol dire avere una idiosincrasia per la politica. La politica non è solo il consiglio di amministrazione della Rai, le liste per le Europee, la presidenza della Leonardo. È anche rottura di schemi. Rilancio di grandi valori, che da sempre sopravvivono nei sotterranei dell’umanità. La pace è uno di questi. E può persino cambiare i rapporti di forza ai vertici degli Stati.