Il caso dell'iraniana
Tribunale di Locri, la fabbrica degli scafisti immaginari: l’accanimento contro Marjan Jamali
Traduttori che capiscono fischi per fiaschi, testimoni che incolpano qualcuno di essere dell’equipaggio dei trafficanti e spariscono puntualmente senza che nessuno si preoccupi di averli per l’incidente probatorio. Ma come le fanno le inchieste a Locri? Il caso di Marjan Jamali
Cronaca - di Angela Nocioni
Deve esserci una ragione nell’ostinazione con cui i giudici si accaniscono su Marjan Jamali, una donna di 29 anni, di Teheran, in attesa di giudizio in carcere dalla fine di ottobre perché indicata come scafista durante gli interrogatori in banchina, subito dopo lo sbarco, da tre uomini irakeni che durante la traversata verso la Calabria hanno tentato di stuprarla. Dopo che questo giornale ha riportato la denuncia sporta da Marjan nei confronti dei suoi violentatori presi per oracolo dagli inquirenti nonostante si siano dileguati e resi irreperibili appena firmata la dichiarazione d’accusa, alla ragazza è successo di tutto. Prima è stata trasferita all’improvviso dal carcere di Reggio Calabria al reparto psichiatrico dell’ex manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto. Senza che fosse avvisato il suo difensore. Senza che fosse possibile farle incontrare suo figlio, di 8 anni, dato in affidamento a una famiglia afghana di Camini, in Calabria, la notte stessa dell’arrivo.
Poi alla prima udienza del processo, svolto con rito ordinario perché la Pm Luisa D’Elia della Procura di Locri ha richiesto di procedere con giudizio immediato senza accogliere la richiesta di interrogatorio presentata nei termini di legge, quando il difensore ha sollevato la nullità degli atti tutti presentati all’accusata in una lingua che lei non conosce – eppure è abbastanza noto che a Teheran si parla l’iraniano – è stata sepolta in cella a Reggio Calabria ad attendere la prossima udienza fissata per il 17 giugno. Rigettata con mezza paginetta la richiesta, circostanziata e documentata, con cui veniva chiesta la sostituzione (e si noti: non la revoca) della misura cautelare. Mandatela nella comunità di accoglienza di Camini dove sta anche suo figlio, chiedeva accorato il difensore, Giancarlo Liberati. Mandatela con braccialetto elettronico se vi pare il caso, ma mandatela là dove può stare con il bambino.
Niente da fare, “non è emerso alcuno novum” scrive il collegio del tribunale di Locri composto da Mario Boccuto, Raffaele Lico e presieduto da Rosario Sobbrio. Le novità ci stanno, eccome. Bastava cercarle. C’è la ricevuta di pagamento all’agenzia di Teheran del biglietto ai trafficanti, pagato dal padre della ragazza. 14mila dollari. Bastava fare una telefonata. Ci sono i testimoni, che vanno cercati. Certo, bisogna lavorare. C’è la logica: ma è credibile che sia una ragazza con un bambino iraniana a gestire una barca di maschi iracheni? Ed è credibile una accusa fotocopia di tre maschi sunniti contro una (bella) donna sciita? Tutti e tre subito indicati come violentatori da lei, rimasta inascoltata e fatta tradurre da un interprete che ignora il persiano, la sua lingua.
A guardare le carte parrebbe che il Tribunale pur di non ammettere d’aver sbattuto in cella la ragazza senza uno straccio di indagine, si stia attrezzando a farcela restare il più possibile. Occhio, il Tribunale di Locri è una fabbrica di scafisti immaginari. Escono da lì una serie lunghissima di prime sentenze di condanna poi puntualmente smontate in appello a Reggio. Persone assolte perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto. Tutti giovanissimi, tutti con la vita distrutta, tutti costretti a passare mesi, anni in cella perché qualcuno ha fatto le indagini coi piedi o non le ha fatte per niente. Due casi: quello di Shami Mohammad, ragazzino siriano fuggito dalle bombe su Aleppo. Additato come scafista. In primo grado, il 15 giugno del 2023 (Gip Mauro Bottone condannato a 4 anni e 6 mesi. Condanna cancellata il 20 febbraio in Appello a Reggio Calabria per assoluzione con formula piena richiesta dal procuratore. bastava fare una telefonata per capire che non c’entrava nulla con quell’accusa il ragazzo, ma quella telefonata gli inquirenti non l’hanno fatta.
Era in carcere ingiustamente dal 16 maggio del 2022. Oppure il caso di Ashoour Mahrous Eldenasaouri condannato in primo grado il 2 marzo del 2023 a 4 anni e 6 mesi (Gip Mauro Bottone) assolto anche lui per non aver commesso il fatto il 14 marzo del 2024. Era in carcere ingiustamente dal 4 giugno del 20121. A Marjan e a suo figlio, è successo questo. Nella notte tra il 22 e il 23 di ottobre 2023 salgono a bordo di una barca a vela di quindici metri insieme a un centinaio di persone. Il cibo scarseggia, quasi subito finisce l’acqua. Tensioni. Liti sottocoperta per accaparrarsi un posto dove circoli un po’ d’aria. Un giorno durante la traversata, Marjan – con il bambino accanto – si sveglia di soprassalto sentendosi mani che le si infi lano sotto i vestiti, la palpano. Lei strilla. Chiede aiuto alle persone stipate insieme a lei lì sotto. Solo un ragazzo la difende. Iraniano, come lei. Si chiama Amir Babai e la pagherà carissima. Dice ai quattro di smettere, di lasciarla in pace. Parte un litigio. Il bambino guarda immobile, terrorizzato. I quattro sono furibondi.
Si chiamano Rahen Khalid Rasul, Rahman Izadi, Mohammed Lateef Hasan e Ali Bishwan Darwish. Tutti e quattro iracheni. L’ultimo, Ali Bishwan Darwish, dice Marjan, era uno dei capitani. Il più violento, dice lei, era Rahen Khalid Rasul. Bishwan Darwish la minaccia: te la faccio pagare. Ci sono persone che possono confermare? Sì, dice Marjan. Sono tutti iraniani quelli che dopo l’hanno un po’ aiutata. Alì Hussein, Irfan Barzigar, Mortaza Abbasi ed Aronzo Abbasi. Qualcuno alla Procura di Locri l’ha cercati? Perché poi è successo che quando la barca è intercettata e i migranti nel porto di Roccella identificati, alla solita domanda che gli agenti di polizia fanno agli sbarcati “chi sono gli scafisti?” i tre a rispondere sono proprio, Rahman Izadi, Mohammed Lateef Hasan e Ali Bishwan Darwish, ossia tre degli aggressori della ragazza. E chi indicano? Lei e Amir Babai, l’iraniano che l’ha difesa. Ma si guardano bene dall’indicare gli altri due membri dell’equipaggio, loro connazionali che l’hanno fatta franca.
Qualcuno al tribunale di Locri si è chiesto quanto siano attendibili le accuse di iracheni, maschi, sunniti contro due iraniani sciiti? E soprattutto, visto che sono state prese per buone quelle accuse (uniche prove per sbattere in galera due persone su cui non grava nessun altro indizio) qualcuno si è assicurato di avere gli accusatori a disposizione per un incidente probatorio comandato dalla legge? No. E gli accusatori, ovviamente, arrivederci e grazie e sono spariti. Questo succede tutti i santi giorni. Chi arriva da clandestino e viene identificato ha subito notificato il reato commesso (ex articolo 10 bis Testo unico sull’immigrazione). Non si ferma lì cortesemente ad aspettare di passare altri guai. Si allontana prima possibile. Qualcuno si è preoccupato di ascoltare la ragazza indicata come scafista? Eppure è strano che in una barca gremita di 100 persone comandi una ragazza. Nel verbale di identificazione c’è scritto che Marjan parla e capisce l’arabo. Non è vero. L’interprete è un iracheno, maschio, sunnita che forse non capisce bene il persiano che lei parla ma al verbale di tutto ciò niente risulta.
Anche il nome è sbagliato: Maryam Qaderi, sta scritto nel rapporto, nata il primo gennaio del 1995. Sbagliati nome, data di nascita e sbagliato anche il nome del bambino. Bastava guardare nell’Iphone che la ragazza aveva con sé per trovare le foto dei passaporti con i nomi corretti e le date di nascita. Ma nessuno l’ha fatto. Gli accusatori vengono lasciati liberi di sparire, insieme a loro e a tutti gli altri spariscono pure i due scafisti iracheni. Insieme a Marjan e l’iraniano Amir che l’ha difesa vengono fermati due egiziani uno dei quali confermerà di essere uno scafista e forse, se glielo avessero chiesto avrebbe potuto dire che quei due iraniani erano dei passeggeri. D’altra parte basta fare due telefonate, una al padre della ragazza e una all’agenzia dove sono stati depositati i soldi per il viaggio – il cui nome, numeri di telefono ed indirizzi mail sono scritti belli grossi sulla ricevuta di pagamento – per verificare che qualcuno ha pagato 14mila dollari il viaggio di Marjan e di suo figlio: 9mila per lei e 5mila per il bambino.
Niente di tutto ciò è stato fatto dagli inquirenti. Non sembra per la verità che nessuno abbia indagato un bel nulla, è stato soltanto preso per buono il verbale con le dichiarazioni dei migranti accusatori lasciati sparire nel nulla senza occuparsi di assicurarseli disponibili per un incidente probatorio come comanda la legge. Il 27 ottobre Marjan è stata fermata, il 30 il fermo è stato convalidato dal Gip di Locri, Mauro Bottone. Il bambino affidato dal Tribunale dei Minori a una famiglia afghana in una comunità in Calabria. La madre portata a Reggio Calabria, in carcere. Dove non è mai stato portato suo figlio fino ai primi di febbraio. Un bambino di otto anni, strappato alla madre dopo una odissea dall’Iran al porto di Roccella, dopo lo sbarco non ha visto sua madre fino a febbraio. Viene fatta istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare, perché almeno possa essere mandata ai domiciliari nella comunità con il bambino. Istanza respinta dopo nemmeno 24 ore in mezza paginetta dal gip di Locri.
Viene anche chiesta la trasmissione degli atti in Procura con la segnalazione delle false generalità che avrebbe fornito Marjan sulla sua identità: come se fosse colpa di lei l’errore nel nome e non di chi le ha preso i dati senza nemmeno guardare il telefono dove le foto dei passaporti coi nomi c’erano. La ragazza da ottobre ad oggi non è mai stata sentita. Avrebbe molte cose da dire utili agli investigatori. Saprebbe indicare i capitani, i testimoni. Il suo difensore dice: “Ho chiesto l’interrogatorio alla pm Luisa D’Elia, siccome non mi rispondeva sono andato fisicamente lì il 28 gennaio, a chiederglielo di persona. Lei ha detto di no, che non l’avrebbe interrogata perché, mi ha detto, aveva già chiesto il giudizio immediato. Ma non era vero che il 27 aveva già depositato la richiesta di giudizio immediato. Anche se sull’atto c’è scritta la data del 26, la sua richiesta l’ha depositata in segreteria il 29”.
Ora, a parte che il giudizio immediato si chiede quando le prove a carico dell’imputato sono schiaccianti, va notato che la pm ha chiesto il giudizio immediato senza aver nemmeno sentita l’accusata dopo che il difensore nei termini di legge ha chiesto l’interrogatorio. Marjan in carcere ha già tentato di ingurgitare overdose di psicofarmaci. Ha violentemente sbattuto la testa sulle mura della cella. Vuole vedere suo figlio, è preoccupatissima per il bambino. Il bambino, dicono dalla comunità dove sta vivendo, chiede sempre della mamma. La risposta al malessere è stata sbatterla per un mese di osservazione psichiatrica (poi dopo mille proteste ridotto a 15 giorni) in un ex manicomio criminale in Sicilia fregandosene altamente del fatto che il figlio della donna è in Calabria. Strana maniera di occuparsi della salute mentale di una detenuta in attesa di giudizio e mai interrogata da un magistrato, strana maniera di occuparsi anche del superiore interesse del minore. Qualcuno in Procura, in questi mesi, si è domandato come mai i tre accusatori che hanno indicato la “donna scafista” e poi sono stati lasciati liberi di rendersi irreperibili, nella loro dichiarazioni non hanno menzionato l’esistenza del bambino? Non si erano accorti che insieme a lei c’era un bambino di 8 anni.