Il dramma delle prigioni
Altro che rieducazione, il carcere serve a soddisfare la sete di vendetta
Il carcere non rieduca. I tassi di recidiva dei detenuti sono molto più alti dei soggetti condannati ammessi all’esecuzione penale esterna, anche se questi sono mediamente autori di reati meno gravi.
Giustizia - di Salvatore Aleo
Ho studiato e insegnato diritto penale per quasi cinquant’anni e la mia considerazione del carcere è mutata nel tempo secondo l’evoluzione delle mie conoscenze e della mia sensibilità. Da giovane consideravo il carcere, da un punto di vista soprattutto etico, come un luogo crudele, dove vengono praticati trattamenti inumani e degradanti, dove vengono mortificati i corpi e le coscienze di persone nostri simili.
Più avanti ho valutato il carcere, da un punto di vista utilitaristico, come strumento poco utile o perfino disfunzionale rispetto al perseguimento degli obiettivi dichiarati. La violenza contrapposta alla violenza non la elide ma piuttosto la raddoppia, la riproduce e contribuisce a diffonderla socialmente e culturalmente.
Il carcere non rieduca. I tassi di recidiva dei detenuti sono molto più alti dei soggetti condannati ammessi all’esecuzione penale esterna, anche se questi sono mediamente autori di reati meno gravi.
Pensando all’immagine tradizionale della (cosiddetta) giustizia, mi piace pensare che sui due piatti della bilancia non vi siano il reato e la pena, che sono grandezze non confrontabili, ma bensì i cittadini che devono essere uguali di fronte alla legge.
Ancora più avanti, ho visto il carcere, da un punto di vista politico, essenzialmente come discarica sociale, come luogo dove ammassare e contenere umili derelitti e sfortunati: le classi pericolose. Dove non c’è nessuna chiave da buttar via, perché la botola della discarica è perfino priva di chiave come di uscita. Un terzo dei detenuti sono stranieri.
Un terzo sono tossicodipendenti, dei quali un terzo di nazionalità straniera. Moltissimi sono i detenuti con problematiche psichiatriche, per i quali la struttura complessiva dell’apparato detentivo e penitenziario sembra inadatta e inefficace.
Diventato vecchio, mi sono convinto che una funzione del carcere sia di mantenere in piedi lo status culturale e istituzionale. Nel bilancio dello Stato sono previsti 3 miliardi 348 milioni 626 mila 567 euro per il mantenimento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che divisi per il numero attuale di circa 60.000 detenuti fanno 55 mila 810 euro per detenuto. Perciò possiamo dire che un detenuto costi a tutti noi circa cinquantaseimila euro l’anno.
Proviamo a immaginare quante cose si potrebbero fare se ci dessero cinquantaseimila euro per ogni detenuto affidatoci da aiutare a riabilitarsi e reinserirsi in società. Occorre considerare che nel numero precedente non sono compresi gli emolumenti di avvocati, magistrati, poliziotti non penitenziari, cancellieri, professori di diritto, consulenti, che pure dovrebbero cercarsi un altro lavoro se il carcere fosse eliminato.
Nel 2014 feci un’esperienza di studio di diversi mesi nelle case circondariali di Bicocca, alta sicurezza, e piazza Lanza, media sicurezza, nella mia città di Catania, e pubblicai un libro che s’intitola Dal carcere. Autoriflessione sulla pena. Vidi le pene che avevo immaginato e molto molto di più. Scoprii, inoltre, le difficoltà e il disagio dei lavoratori del carcere.
Una donna lavoratrice del carcere mi sottopose la considerazione che la società non riflette sul fatto che poi i detenuti il carcere glieli restituisce, spesso peggiori di prima, certamente non migliorati. Autoriflessione sulla pena perché il problema va affrontato a partire dal sentimento e bisogno di vendetta di ciascuno di noi, a cominciare dunque da me.
La pena può essere ritenuta il prolungamento logico e storico della vendetta. Il paradigma più essenziale della nostra teoria della responsabilità è fondato, in realtà, sulla vendetta, sul contrappasso.
La nostra cultura sociale produce sentimenti di rivalsa e spirito di vendetta, che vengono corrisposti e soddisfatti da politiche per nulla utili a risolvere i problemi, ma rispondenti a bisogni primitivi considerati essenziali.
Oggi, risorse culturali e tecnologiche più avanzate consentirebbero tante soluzioni diverse e assai più efficaci. Non più la nozione di responsabilità ‘di’, una cosa passata, ma quella di responsabilità ‘per’, il futuro, per un progetto.
Come facciamo per i nostri figli. Mi piace ricordare che quando re Ferdinando di Borbone abolì in Sicilia il Tribunale dell’Inquisizione (16 marzo 1782) il Senato di Palermo gli inviò una supplica (luglio 1780) affinché soprassedesse a quella abolizione, da cui «verrebbero a mancare molti impieghi che danno al presente e potrebbero dare in appresso di vivere decentemente a molti cittadini di ogni ceto e condizione».
«Sono questi impieghi per la maggior parte occupati dagli abitanti di questa Capitale, e in quelli trovano il loro decente sostegno molte famiglie anche illustri, persone ecclesiastiche di riguardo, e vari altri soggetti di ogni ceto e condizione».
*Già Professore ordinario di diritto penale