Pena detentiva è degrado
Il carcere va abolito, rieducare è un’illusione: le nostre prigioni sono diventate ospizio dei poveri
Editoriali - di Stefano Anastasia
La morte di due detenuti nel carcere di Augusta, in provincia di Siracusa, a seguito di scioperi della fame deliberatamente portati avanti per sessanta e quarantuno giorni, ha giustamente richiamato l’attenzione del Garante nazionale Mauro Palma, della stampa e dell’opinione pubblica. Per quattro mesi, giustamente, abbiamo discusso delle condizioni di detenzione di Alfredo Cospito, che protestava contro il regime di 41bis cui è costretto da un decreto ad personam del Ministro della giustizia, mentre non ci siamo accorti, e a dire il vero non abbiamo saputo nulla della protesta di questi due uomini fino al giorno della morte del secondo dei due. Entrambi ergastolani, uno si professava innocente, l’altro da anni chiedeva di poter scontare la pena nel proprio Paese. Questo sappiamo oggi, dopo che entrambi sono morti. Immaginiamo che le ragioni delle loro proteste siano riportate nel registro degli “eventi critici” che il personale penitenziario deve aggiornare in tempo reale e che gli uffici ministeriali possono consultare in tempo reale.
Non sappiamo se l’iscrizione di un nuovo caso, o l’aggravamento di uno già registrato, generi un alert nella “sala situazioni” del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, il centro di monitoraggio degli eventi critici in corso nelle carceri italiane. Probabilmente sì, ma forse gli allarmi sono troppi, o non opportunamente distinti per indice di gravità. Fatto sta che per sessanta giorni in un caso, per quarantuno in un altro, qualcuno avrà registrato che l’uno e l’altro rifiutavano di mangiare per protesta contro quelle che loro ritenevano delle ingiustizie, il solo fatto della condanna o la possibilità di scontarla nel proprio Paese. Registriamo a nostra volta il fatto che l’osservanza dei protocolli di gestione degli eventi critici, che – come il Garante nazionale – presumiamo sia stata rispettata, non ha impedito che due uomini siano morti a pochi giorni l’uno dall’altro nello stesso istituto di pena nell’ignoranza, se non nell’indifferenza generale.
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Questo può avvenire nelle nostre carceri perché questo è lo stato delle nostre carceri. Uno stato di abbandono, se non di degrado, in cui solo l’abnegazione degli operatori e dei volontari, l’attenzione dei familiari e degli avvocati, la sensibilità delle autorità di garanzia riesce a evitare il peggio e, talvolta, a inverare miracolosamente la promessa rieducativa della Costituzione.
In chi, come il sottoscritto, entra in (e per fortuna esce dal) carcere da trentacinque anni, di volta in volta per passione civile, impegno istituzionale, vocazione professionale, tutto questo potrebbe suscitare frustrazione o disillusione, ma per essere delusi bisognerebbe prima essersi illusi e io l’illusione del carcere rieducativo non l’ho mai coltivata. La promessa rieducativa è il nobile e generoso tentativo dei Costituenti di pensare a un carcere diverso da quello che è, un carcere come ultimo presidio di uno stato sociale che non abbandona nessuno.
La storia del carcere come luogo di esecuzione delle pene è la storia di questa illusione. I suoi progetti di riforma risalgono ai suoi albori, e sono stati continuamente frustrati dalla natura degradante della pena detentiva. E’ la natura degradante della pena detentiva che impedisce che il carcere sia adeguatamente finanziato, che gli spazi e il personale siano adeguati ai bisogni e alla “rieducazione” dei condannati.
Il carcere è, al più, una tragica necessità, da limitare ai casi in cui è strettamente necessario, per il tempo strettamente necessario. Invece è diventato l’ospizio dei poveri, si dice per dar loro una seconda opportunità, in realtà perché non si ha nulla da dargli fuori e allora sarà meglio tenerli rinchiusi da qualche parte.
Con questo disincanto ci si può e si deve avvicinarsi al carcere: non per contemplare il suo fallimento, ma per lavorare al suo superamento. La battaglia per i diritti in carcere non è una surrettizia forma di legittimazione della istituzione penitenziaria, ma il modo concreto con cui il carcere può essere messo di fronte alle sue contraddizioni e, mano a mano, eroso e superato in nome delle sue promesse non mantenute né mantenibili: il rispetto dei diritti fondamentali, il sostegno al reinserimento sociale in condizioni di autonomia e legalità.