Il nuovo film nelle sale

Recensione di Caracas, il film di Marco D’Amore tratto dal romanzo di Ermanno Rea

Tratto da “Napoli Ferrovia”, il film racconta l’amicizia impossibile tra un vecchio scrittore comunista e un fascista. Un racconto spiazzante e coraggioso che vent’anni fa vide il futuro

Cinema - di Chiara Nicoletti

29 Febbraio 2024 alle 17:30

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Foto da Facebook – Marco D’Amore
Foto da Facebook – Marco D’Amore

“In questo romanzo non racconti Napoli, racconti il mondo” dice un direttore di una casa editrice al suo Maestro, lo scrittore Giordano Fonte, un Toni Servillo giunto a Napoli dopo tanti anni di lontananza e piombato in una crisi creativa.

Siamo dentro Caracas, film in uscita oggi con Vision Distribution, opera seconda di finzione diretta da Marco D’Amore, qui anche co-protagonista, tratta da un romanzo di Ermanno Rea, Napoli Ferrovia.

Parla di Partenope ma Caracas la mostra come mai era stata rappresentata in passato, dal punto di vista di “un essere umano che ha lasciato la città e non la conosce più”, conferma D’Amore che sottolinea come a tessere le fila di questa storia, a indirizzare i suoi personaggi, c’è proprio Napoli.

“Ho fatto i conti con quanto la città sia stata abusata e lo dico amabilmente, dal cinema e dalla TV – premette – e quindi volevo riconoscerle, più che una collocazione geografica, la caratteristica di essere un luogo della coscienza. Più che la dimensione geografica volevo che si riconoscessero i suoi umori e la capacità di condurre i personaggi dove vuole. Quello che è successo a Rea, finito a incontrare l’Imam ed una persona come Caracas, non si capisce, l’unica spiegazione è che sia stata Napoli a portarlo lì”.

Due uomini alla ricerca del proprio posto nel mondo, questo racconta Caracas, il primo, uno scrittore, Fonte, che ha deciso di non scrivere più perché non trova più il motore di tutto e l’altro, Caracas (D’Amore) che in una deriva fascista prima e nella conversione religiosa poi, cerca qualcuno che lo accolga. Come possono convivere due scelte così estreme in una sola persona, un solo personaggio?

E come si mettono in scena? Marco D’Amore risponde sicuro: “Queste due esperienze sono associate perché prendono spunto da una vicenda realmente accaduta e sono parte della vita di un uomo che Rea ha incontrato e ha deciso di raccontare. Raccontano la necessità spasmodica, il desiderio fanatico e l’illusione perpetua di questo essere umano di trovare un posto che gli corrisponda, in cui si senta accolto, amato, compiuto e questa ricerca non sta semplicemente nella visione politica o nell’afflato spirituale ma sta nell’amore, nell’enunciazione di certi idealismi, e nel rifiuto categorico di altre cose e sta in un tema sostanziale, enunciato nella prima scena del film, in quel precipizio, quella caduta che connota tutte le vicende dei personaggi di questa storia”.

Si spiega meglio poi D’Amore: “Giordano precipita in questa vicenda, Yasmina precipita in quella ferita, i due precipitano nell’amore, Giordano precipita nel desiderio di raccontare questa storia. Questa caduta significa due cose sostanziali: il rischio di rompersi l’osso del collo ma anche quel momento di adrenalina che ti dà solo lo stare così vicino alla morte e aprire all’ultimo secondo il paracadute. Noi facciamo così il nostro mestiere, rischiando di sfracellarci, e per questo ringrazio i produttori Luciano Stella e Maria Carolina Terzi perché questo è un film che sulla carta non sarebbe convenuto a nessuno fare”.

Caracas segna una importante reunion, quella tra Marco D’Amore e il suo Maestro Toni Servillo, tra i primi ad avergli insegnato il mestiere dell’attore, all’epoca dell’esperienza virtuosa di Teatri Uniti, laboratorio teatrale fondato nel 1987 dallo stesso Servillo insieme a Mario Martone e il compianto Antonio Neiwiller.

L’attore musa di Paolo Sorrentino e non solo, spiega in modo commovente e poetico le ragioni che lo hanno portato a diventare parte di Caracas: “È innanzitutto emozionante per me la circostanza in cui si sono invertiti i ruoli. Marco è cresciuto nella mia compagnia teatrale quando era giovane e l’idea che sia lui a dirigermi rappresenta un qualcosa che si spiega con i sentimenti. Mi ha fatto particolarmente piacere stare accanto a un giovane autore che ha conquistato negli ultimi anni una enorme popolarità e ha approfittato di questa per scegliere un film dal linguaggio complesso, che tratta di argomenti complessi, decidendo di offrirli a quelli della sua generazione. E poi c’è il romanzo di Rea che conoscevo e che amo, c’è il personaggio di Fonte e potete immaginare che mi affascini molto interpretare una vecchia cariatide comunista che decide di tornare nella città natale dalla quale si era allontanato da molto tempo, in occasione di un premio, e che durante questa cerimonia dichiari che non scriverà più. Si trova infatti, nel suo ritorno a Napoli, in una crisi esistenziale e personale perché non crede più di avere gli strumenti efficaci per raccontare la realtà”.

Prosegue Servillo:Mi affascinava che in questo momento di crisi, a Napoli, incontra questo personaggio e nasce un’amicizia che più paradossale non può essere tra due persone così distanti. Questa apparizione e improvvisa scomparsa di Caracas fanno sì che questo scrittore, per formazione ideologica legato alla realtà, si trasformi in una macchina di sogni. Ed è con questo che Marco ha reso questa opera letteraria opportuna dal punto di vista cinematografico tanto da invitare lo spettatore a pensare se questo personaggio dell’ultimo romanzo che tenta di scrivere non sia frutto della sua immaginazione, se non addirittura un demone dentro di lui che l’occasione gli consente di espellere.”

Si pone l’accento, in Caracas, su due mondi, due realtà che ora più che mai parlano dell’oggi: la realtà religiosa, soprattutto quella musulmana e la deriva di estrema destra, pura attualità: “Mai come in questa circostanza, favorita dalla natura del romanzo di Rea, una macchina da presa era entrata con tanta impudicizia nel mondo dell’estrema destra fascista, non raccontato e anche nella grande comunità islamica napoletana – riflette Servillo. Ed è affascinante che lo scrittore moltiplichi questa sua sensazione di smarrimento e fragilità proprio perché si trova tra questi poli opposti in forte contraddizione e difficilmente sintetizzabili”.

Approfondisce D’Amore:Credo che questi due macromondi siano stati intercettati da Rea con lungimiranza. Sia la questione politica che quella di una comunità religiosa che sta abitando il nostro paese sono attuali ed il romanzo è del 2007. Come sempre i grandi autori riescono a prevedere il futuro, in questo racconto c’è una modernità spaventosa che può parlare ai contemporanei e in questi due macromondi che il personaggio abita, c’è appunto questo desiderio folle di trovare un posto che lo riesca ad accogliere, riassumibile in un gesto piccolo, qualcuno che ci tende la mano. È quella la luce – conclude il regista – quel Dio che lui cerca con fanatismo”.

29 Febbraio 2024

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