La morte dell'oppositore
“Sull’Ucraina l’Occidente ha sbagliato ogni previsione”, l’accusa di Silvio Pons
«I proclami sull’umiliazione di Mosca si sono rivelati quanto meno poco lungimiranti. Errori anche sull’effetto delle sanzioni. La tendenza alla militarizzazione delle relazioni internazionali favorisce Putin. Lui è un aggressore e un dittatore, ma bisogna chiedersi cosa avremmo potuto fare per non arrivare a questo punto»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La tragica morte di Alexei Navalny e la “strategia della paura” che ha trasformato il regime di Putin in un efferato stato di polizia in tempo di guerra. Una considerazione che attraversa l’intervista a L’Unità di uno dei più autorevoli studiosi del “pianeta” russo: Silvio Pons.
Il professor Pons insegna Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa. È presidente della Fondazione Gramsci. Tra le sue pubblicazioni con Einaudi ricordiamo: Berlinguer e la fine del comunismo (2006), La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991 (2012), I comunisti italiani e gli altri. Visioni e legami internazionali nel mondo del Novecento (2021) e la cura (con Robert Service) del Dizionario del comunismo nel XX secolo (2006- 2007), e con Carrocci L’impossibile egemonia. L’Urss, il PCI e le origini della guerra fredda (1943-1948). È General Editor della Cambridge History of Communism (Cambridge University Press 2017).
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Professor Pons qual è il messaggio sottointeso alla morte di Alexei Navalny?
Il messaggio che a me sembra inequivocabile è quella che definirei la strategia della paura da parte di Putin. Una strategia che non è nuova ma che continua intensificarsi sempre di più col passare dei mesi di guerra.
Due anni dopo.
Inizialmente Putin aveva sminuito l’impatto della sua decisione di fare la guerra all’Ucraina, tanto che non ha usato la parola guerra e continua a non farlo, parlando di “operazione speciale”. Però col passare del tempo ha intensificato una strategia di persecuzione di ogni possibile opposizione, anche soltanto potenziale, e d’intimidazione dei cittadini. Sono in vigore leggi spaventose per cui si rischia la galera anche soltanto per aver criticato il regime per la guerra in Ucraina, e adesso c’è anche una disposizione per la requisizione dei beni personali.
E’ evidente che se anche Putin continua a non chiamare guerra la guerra in Ucraina, sta sempre più adottando misure che sono quelle di uno stato di polizia in tempo di guerra.
Questa strategia della paura è anche funzionale alle imminenti elezioni presidenziali nella Federazione Russa?
Direi di sì. Da queste elezioni immagino che Putin si aspetti la conferma di un supporto fondamentale della società russa nei suoi confronti. Purtroppo temo che abbia ragione.
Vale a dire, professor Pons?
C’è una parte maggioritaria della società russa che esprime un consenso nei confronti di Putin e per quanto ci siano segnali di disaffezione verso la guerra, fondamentalmente Putin è riuscito a suscitare un consenso nazionalista attorno a questa operazione. Il risultato non è in dubbio, ma quel che conta sono le percentuali del consenso. Se una parte dei cittadini non va a votare perché intimidita dalle misure di polizia a vari livelli, questo può giovare a un risultato che vada bene al Cremlino. Niente è in discussione. Non è in discussione chi sarà il nuovo-vecchio presidente. Putin ambisce a un plebiscito per dimostrare al mondo che il popolo russo è con lui. Diciamo che non si accontenta di vincere. Vuole stravincere. E questa potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio.
In questi giorni in tanti si sono cimentati nel definire Alexei Navalny. Da storico e profondo conoscitore della realtà russa, come racconterebbe Navalny ai suoi studenti?
Navalny è stato uno dei principali promotori di una protesta contro il regime di Putin soprattutto dal momento in cui effettivamente si è visto il salto di qualità verso il regime, verso un potere personale che non aveva più alcun limite in termini di rapporto col quel poco di democrazia che c’era stata in Russia. Navalny nasce come personalità politica in quella congiuntura, cioè nell’opposizione alla costruzione da parte di Putin di un vero e proprio regime. Sulla periodizzazione di questo regime si può discutere. Sicuramente un salto di qualità si è avuto dodici-tredici anni fa, quando dopo aver cambiato la Costituzione, Putin è arrivato al terzo mandato. Ormai nessuno se lo ricorda, ma allora ci furono delle manifestazioni di protesta rilevanti, soprattutto a Mosca, per la prima volta nella storia della Russia dopo il collasso sovietico. Nel 2011-2012, ci sono state manifestazioni di protesta importanti, ed è giusto riconoscere a Navalny di aver rappresentato un simbolo della resistenza alla costruzione di un regime. Questa, in buona sostanza, è la simbologia che sta attorno a Navalny. In questo senso, lui è stato anche un erede dei dissidenti che hanno segnato la storia della Russia sotto il regime sovietico. In Occidente non dobbiamo smettere di sperare in una Russia democratica nel futuro. Dico questo perché avverto che c’è un po’ la tendenza a dire che ormai la Russia ha preso la sua traiettoria. Il pessimismo dell’intelligenza è d’obbligo, però la morte di Navalny ci ricorda che esiste anche una Russia democratica e che Putin non è eterno. Noi dovremmo pensare le nostre azioni e le nostre strategie in questa chiave. La Russia non è uscita per sempre dall’orbita delle possibilità di una trasformazione democratica anche nel suo rapporto con l’Europa.
Tutto questo avviene in uno stato di guerra. Sul fronte ucraino, al di là della propaganda, si ha l’impressione che quel collasso che si dava quasi per certo del regime putiniano e la sconfitta sul campo di battaglia, non si siano avverati.
Indubbiamente c’è una situazione che non era stata prevista. Si direbbe che sul campo si sia determinata una situazione di difficoltà per l’Ucraina e di rafforzamento e consolidamento della Russia, che non erano state messe sufficientemente in conto da parte occidentale. Era invece uno scenario del tutto plausibile. Si sono susseguiti annunci, proclami sulla sconfitta di Putin, sulla umiliazione della Russia, che si sono rivelati, alla prova dei fatti, quanto meno poco lungimiranti. Avremmo dovuto mettere in conto il rischio che la forza russa, legata anche al modo primitivo di combattere, al disprezzo per le vite umane, al fatto di mandare a morire con grande facilità i loro soldati, esiste, si esercita. In più si sono rivelate sbagliate anche le previsioni sull’economia russa e sull’effetto delle sanzioni. Previsioni completamente errate. Penso che noi occidentali, noi europei, dovremmo interrogarci seriamente su questi errori di valutazioni che sono gravi. Errori politici. Ma non vedo una capacità, e forsanche una volontà, di cambiare il discorso politico, cercando di immaginare un dopoguerra. Questo è sicuramente un grosso problema, che si è creato, va detto, anche per motivi comprensibili: c’era la necessità primaria di fronteggiare un’aggressione e di consentire alla resistenza ucraina, che nessuno aveva previsto quanto a determinazione e sacrificio, di consolidarsi e contrastare l’avanzata russa. Questi erano tutti obiettivi giusti. Però ritengo che si sarebbe dovuto mettere in maggior conto il rischio a cui oggi assistiamo, cioè la tenuta militare ed economica della Russia.
Dentro gli errori dell’Occidente, non c’è stato anche l’oscillare tra la sottovalutazione e la compromissione quanto al rapporto con la Russia di Putin?
Sono vere entrambe le cose. Da una parte, abbiamo sottovalutato Putin. A me è capitato anche in tempi lontani di dire che il regime di Putin stava evolvendo verso una forma di dittatura, e questo era già visibile almeno quindici anni fa, con il cambiamento della Costituzione, un ulteriore giro di vite sull’informazione, la pressione sulla stampa, il monopolio del potere sulla televisione, il controllo assoluto sul potere giudiziario. Tutte cose visibilissime. Che questo gruppo di potere, finisse per esprimere una sua presenza internazionale aggressiva, questo era da mettere in conto. D’altro canto, l’avevamo visto già in Siria. C’è stata una sottovalutazione, una scarsa lungimiranza da parte occidentale sul fatto che la Russia potesse avere questo tipo di evoluzione dopo gli anni’90. Si poteva immaginare, come peraltro a più riprese venne detto all’epoca da personaggi come Kennan o come Kissinger, di dover trovare un modus vivendi con la Russia dopo la Guerra fredda. Questo modus vivendi non è stato molto cercato da parte occidentale. Dopo l’implosione dell’impero sovietico, si è fatta strada l’idea dell’umiliazione della Russia. E questo ha finito per favorire la narrativa putiniana, quella che puntava sull’orgoglio nazionalista, sui miti del passato zarista. Più in generale, la tendenza alla militarizzazione delle relazioni internazionali sembra favorire Putin, e non indebolirlo. Putin ha mostrato di sapersi muovere bene in questo contesto. Questo va detto anche perché c’è chi pensa che si debba andare verso una ulteriore militarizzazione delle relazioni internazionali. Un conto è che l’Europa abbia bisogno di una sua forza di deterrenza, ma pensare che si debba tornare ad una nuova Guerra fredda, intesa come contesto militarizzato, questo gioca a favore di Putin, di certo non lo indebolisce. Posto che Putin è quello che è, un dittatore e un aggressore, è giusto anche chiedersi cosa avremmo potuto fare per non arrivare a questo punto. C’è una complessa opera di storicizzazione che andrebbe condotta, fuori dalle semplificazioni per cui se poni il problema e azzardi qualche rilievo critico all’occidente allora sei filo Putin. Quel che è certo, è che dal 2014 non c’è stato più alcun dialogo tra le due parti. Ed è stato un male, comunque lo si guardi.