L'incontro della Fgci
Intervista a Cecilia D’Elia: “Noi ragazzi della Fgci: la Palestina nel cuore e la lotta per Mandela”
«Negli anni 80 non pensavamo di avere dalla nostra il vento della storia. Erano gli anni della rivoluzione conservatrice, di Thatcher e poi Reagan. Eppure abbiamo sperimentato una nuova cultura politica. Ma per fortuna la voglia di cambiare il mondo non si è esaurita con noi»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Della “nuova FGCI” è stata militante e dirigente, prima degli universitari a Roma e successivamente responsabile nazionale delle ragazze comuniste. Un impegno, quello per i diritti delle donne, che Cecilia D’Elia ha portato con sé in ogni passaggio della sua vita politica (fa parte della Direzione nazionale Dem) e parlamentare (in questa legislatura è senatrice, capogruppo PD alla Commissione cultura e patrimonio culturale, istruzione pubblica, ricerca scientifica, spettacolo e sport di Palazzo Madama, Vice presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sui femminicidi).
Quella spinta che voleva cambiare il mondo”. È molto più del titolo di “Allonsanfàn”, l’incontro del 10 febbraio a Firenze “delle ragazze e dei ragazzi della Federazione Giovane Comunista Italiana degli anni ’70-‘80”. Di quella FGCI sei stata militante e dirigente a Roma, nella Lega degli universitari e a livello nazionale. Cosa è stata quella “spinta che voleva cambiare il mondo” e che ne è rimasto oggi?
Quella spinta ha segnato profondamente la vita di tante e tanti di noi. Credo che si sia declinata differentemente nelle diverse generazioni. Gli anni ‘80 nel mondo sono stati quella della rivoluzione conservatrice, la vittoria della Thatcher e poi di Reagan hanno segnato un punto di svolta. Quelli di noi che si sono iscritti alla FGCI negli anni 80 non pensavano di avere il vento della storia con loro. Credo che questo segni una grande differenza tra noi e la generazione della FGCI degli anni ‘70. Arriviamo mentre comincia a delinearsi una sconfitta epocale della sinistra e le domande di cambiamento che l’hanno attraversata vengono interpretate in modo nuovo dalla destra rampante, nel segno neoliberale dell’individualismo e della fine della società. Eppure, anzi direi proprio per questo, noi abbiamo sperimentato e provato a mettere in campo forme nuove dell’organizzazione e una nuova cultura politica, nonviolenta, femminista, ambientalista, come tratto distintivo della sinistra. Per noi questo era già sinistra. L’articolo di Enrico Berlinguer del 1981, quello citato da Marco Fumagalli nella sua intervista, dove si afferma che alla contraddizione di classe si accompagnano, con pari dignità̀, le domande del movimento delle donne o di quello ambientalista era per noi un punto di partenza. Eravamo nati in quei nuovi orizzonti. In un partito comunista che ti faceva incontrare Luce Irigaray e una FGCI che organizzava i seminari con Adriana Cavarero. Raccoglievamo le firme per il referendum sul nucleare dopo Chernobyl: era naturale farlo.
Un impegno a tutto campo…
Così come abbiamo sperimentato, con la FGCI rifondata nel 1985, una nuova organizzazione, fatta di leghe studentesche, centri di iniziativa sulla pace, sull’ambiente, un movimento delle ragazze autonomo, che scrive il suo vocabolario femminista. Con la Palestina nel cuore e per la liberazione di Nelson Mandela: forse uno dei ricordi più commoventi di quegli anni fu la sua liberazione nel 1990, un anno dopo la caduta del Muro di Berlino. Il mondo sembrava davvero cambiare nel segno di nuove libertà. E probabilmente questo fu l’abbaglio che la sinistra ebbe rispetto al decennio che si apriva. Ma tornando a noi figgicciotti, fummo protagonisti del movimento antirazzista, dopo la morte di Jerry Masslo nel 1989 a Villa Literno. Nell’estate successiva, andammo lì a fare un campo per accogliere i lavoratori immigrati e da quell’ esperienza nacque Nero e non solo. Oggi si direbbe che il nostro era un attivismo intersezionale. Penso che sia stato laboratorio di idee e di pratiche politiche ancora per certi versi vitale e la spinta a voler cambiare il mondo per fortuna non è finita con noi. Si è espressa anche nelle generazioni successive. Qualche volta è stata violentemente fermata, penso al 2001 a Genova, ma si esprime ancora oggi in Fridays for Future e nei movimenti giovanili sull’emergenza climatica, ma anche nella straordinaria mobilitazione del novembre scorso contro la violenza sulle donne. In tante città, migliaia di donne e uomini, spesso giovanissimi si sono mobilitati contro la cultura patriarcale che produce la violenza.
Dov’è il nodo da sciogliere soprattutto per cercare di riallacciare i fili di un rapporto oggi alquanto problematico tra la sinistra e le giovani generazioni?
Il punto è quale nesso c’è tra quelle domande e la politica, come la sinistra è capace di interpretarle, quale nuova relazione siamo capaci di tessere tra vita delle persone e politica. E soprattutto cosa siamo disposti a imparare dai più giovani. Io dall’esperienza della FGCI. rifondata ho imparato che le generazioni hanno una loro autonomia politica che va interrogata e ascoltata. Penso oggi al femminismo intersezionale, o a come gli studenti, dopo l’esperienza del Covid stiano mettendo al primo posto questioni che riguardano la salute mentale, i disturbi alimentari, oltre alla questione sociale del caro affitti e del diritto allo studio.
La tua esperienza generazionale è a cavallo tra un mondo che stava scomparendo, crollato con il Muro di Berlino, e la ricerca di una nuova identità della sinistra. Una generazione “smarrita”?
L’89 e le sue conseguenze hanno cambiato profondamente il quadro politico. Forse uno smarrimento c’è stato, una forte divisione e anche una dissipazione di forze, di cultura, di memoria. Mi ha impressionato sabato scorso la quantità di persone, tanti giovani, che visitava la mostra su Enrico Berlinguer. Si alternano nelle foto e nei filmati la figura del segretario, la sua speciale singolarità, e le masse oceaniche che affollano la chiusura delle feste de l’Unità, i comizi delle grandi manifestazioni. Un pezzo della storia democratica di questo Paese, un partito di quello che allora si chiamava arco costituzionale. Anche per questo è irricevibile l’equiparazione del ministro della cultura Sangiuliano tra antifascismo e anticomunismo, ignorando la storia dell’Italia repubblicana.
Ma dopo la svolta la gran parte di noi non si è “smarrita”, ha continuato a far politica, spesso in forme diverse; alcuni hanno avuto importanti ruoli di governo e istituzionali, altri fuori dai partiti, nelle associazioni, nei movimenti, nel sindacato. Io stessa, negli anni Novanta, oltre a dar vita a una rivista femminista con alcune mie compagne di strada, mi sono impegnata nel movimento antiproibizionista e per la riduzione del danno in materia di droghe.
Appuntamenti come quello di Firenze, e il dibattito, ricco, plurale, che l’Unità ha aperto, servono anche per ricordare compagni che hanno fatto quella storia e che non sono più qui con noi. Come Antonio Luongo.
Antonio e tanti altri che ci hanno lasciato troppo presto. Abbiamo ricominciato a vederci periodicamente come FGCI, degli anni ‘80, grazie all’associazione nata a Modena in memoria di Angela Benassi. Ma vorrei ricordare anche Giusi del Mugnaio, che ho conosciuto nella mia Potenza i giorni dopo il terremoto del 1980. Oppure Franco Acquasanta, Teresa Vesuviano, ma forse è meglio che mi fermi qui. Antonio Luongo, come me, si era iscritto alla FGCI nei giorni dopo il terremoto del 1980 ed è stato un dirigente nazionale e anche un protagonista a Roma, insieme a Nicola Zingaretti, a Roberto Gualtieri e alla sottoscritta, per citarne solo alcuni, della vittoria alle elezioni del 1987 all’università La Sapienza della lista “di a da sinistra”, che aveva dato vita a comitati e collettivi di ogni facoltà. Dopo la violenza degli anni ‘70 e il dominio dei cattolici popolari degli anni ‘80, la FGCI tornava nella città universitaria romana. Tornato nella sua terra, è poi stato una figura centrale del centrosinistra in Basilicata.
Oggi tu ricopri importanti incarichi nel Partito Democratico, di cui sei anche senatrice. Di fronte a una destra aggressiva, fortemente identitaria, la sinistra, e in essa il PD che ne è forza largamente maggioritaria, si è attrezzata, politicamente, culturalmente, per reggere una sfida su grandi temi come la pace, la lotta alle disuguaglianze, una crescita sostenibile, una idea di sicurezza che non si traduca in securitarismo (sui migranti e non solo)?
Credo che dopo la sconfitta del 2022 il PD guidato da Elly Schlein abbia aperto una fase nuova. Per la prima volta nella storia d’Italia una donna, giovane e femminista è alla guida del principale partito della sinistra. Un esito che è già una discontinuità forte, che si è vista subito all’opera. Intanto con una grande apertura verso la società, guardando a chi non è andato a votare, ma anche all’associazionismo, ai sindacati, e poi un cambiamento nell’agenda politica. Il contrasto al disegno di legge sull’autonomia differenziata, alle politiche securitarie, il rilancio di un’iniziativa sul terreno della pace e di una richiesta di immediato cessate il fuoco, un cambio di passo anche sulle politiche migratorie, sono stati l’impegno di queste settimane, in parlamento e fuori per costruire un’alternativa credibile alle destre, lavorando con le altre opposizioni. Perché senza alleanze non si sconfigge la destra. Abbiamo messo al primo posto la questione sociale e la lotta alle disuguaglianze, la questione salariale come una grande questione di giustizia e di contrasto allo sfruttamento. In questi giorni si è chiusa la campagna di adesioni alla Conferenza delle democratiche, un luogo autonomo e femminista, a cui quest’anno hanno aderito tantissime donne non iscritte al partito. Il PD non è sempre uguale a se stesso, e non vederlo – se non è pregiudizio – è segno di una grande miopia.