Calcio
Essere Zemaniani: il culto dell’allenatore Boemo, il calcio in direzione ostinata e contraria del “mio amico Zdenek”
Un maestro di vita oltre che maestro di calcio: Zdenek Zeman, allenatore boemo, continua a sedurre e a fare spettacolo sulla panchina del Pescara. E a conquistare tifosi che lo seguono oltre l'appartenenza calcistica. Un culto
Sport - di Antonio Lamorte
Allo stadio Adriatico Cornacchia di Pescara poca gente e un freddo becco – è pur sempre gennaio. Fuori, il tipo alla bancarella, intabarrato pure lui in bianco e azzurro, infila le mani tra bandiere e magliette. “Sicuro ne avevo una, dev’essere qua da qualche parte”. Sposta un paio di scatoloni, ne tira fuori un altro, spinge le mani in fondo. “Eccola! È l’ultima”. Francesco prende la sciarpa bianco azzurra, la scritta enorme ZEMAN, il faccione da lupo dell’allenatore boemo, e la mette al collo. “Quante ne ho vendute l’altra volta, quando stavamo in serie B. Le devo ordinare. Quest’anno c’era entusiasmo all’inizio, adesso no”. Francesco a malapena risponde, taglia corto, si avvia verso i distinti.
Alla 23esima giornata di Serie C, girone B, il Pescara arriva con 35 punti. La curva canta “gente di mare, che se ne va”. Gente di mare, che allo stadio però non ci va. La squadra ospite, il Sestri Levante, ha soltanto 22 punti, parte bassa della classifica. Francesco è anche lui in trasferta. Era al lavoro quando a inizio dicembre aveva letto all’improvviso dell’ischemia cerebrale. Un colpo all’anima, un momento di terrore, le mani nei capelli. Zdenek Zeman si era ripreso subito e subito era tornato in panchina. Pare abbia smesso di fumare.
È tornato in Abruzzo per la terza volta nel 2023, dodici anni dopo la spettacolare promozione in Serie A: era il Pescara del trio Immobile-Insigne-Verratti. Allora sì che l’Adriatico era sempre stracolmo. Quest’anno si punta agli interminabili playoff della serie C: il Cesena primo in classifica è già imprendibile, a 53 punti. Francesco si guarda intorno, lo stadio mezzo vuoto. “Non ci credono, questa cosa mi fa incazzare”. Lui invece sì: è uno zemaniano.
Chi sono gli zemaniani
Salvio Imparato si chiede a volte: cosa farebbe Zeman al posto mio? Gestisce e anima il “Gruppo Zeman”fondato da Salvatore Piedimonte, oltre 18mila follower e una comunità definita un “pensatoio, un Laboratorio Culturale Popolare ispirato al Modello Zemaniano”. Imparato ha cominciato a seguire l’allenatore cecoslovacco quando arrivò a Napoli – un’esperienza fallimentare. Il gruppo è nato quando Zeman è tornato a Foggia con Casillo e Pavone nel 2010: la città dov’era scoppiata Zemanlandia in purezza nei primi anni ‘90. Calcio spettacolo, ragazzi sconosciuti esplosi dal nulla, alcuni diventati campioni e altri spariti nel giro di poco, lo Zaccheria sempre un catino, plusvalenze da capogiro. Il riassunto più espressivo: gli occhi a cuoricino di Pasquale Casillo – il “Re del Grano”, presidente di quel Foggia, colpito da un sanguinoso e inconcludente calvario giudiziario – per l’allenatore nel documentario di Giuseppe Sansonna.
Per Treccani Zemanlandia è il “sistema di gioco, fantasioso e votato all’attacco, ideato e adottato dall’allenatore di calcio boemo Zdenek Zeman”. Salvio Imparato e altri zemaniani hanno seguito l’allenatore perfino a Lugano, un’esperienza non proprio esaltante. Un torpedone partito da Napoli e passato per Pescara per arrivare in Svizzera. “Fino a qua siete venuti”, gli disse Zeman con il suo vocione a fine partita quando se li ritrovò per l’ennesima volta tra i piedi. Il gruppo Facebook è popolato da tanti tifosi di squadre che Zeman non ha mai allenato. Molti interisti, molti fiorentini. Chi si ascrive alla comunità rivendica alcuni valori: la voglia di migliorare, l’onestà, il sacrificio, l’impegno di superare i propri limiti.
“Allenare e far crescere giocatori mediocri che con lui sono arrivati a un alto livello è uno degli aspetti che affascina della sua figura – osserva Imparato – Lui ha vinto dov’era l’ultima cosa possibile, dove nessuno se l’aspettava: a Foggia, a Pescara. La frase che ripetiamo e che leggiamo più spesso nel gruppo è che Zeman è un maestro di vita più che di calcio. Mi rivedo in questa sua filosofia: quella di dover attaccare sempre”.
Una filosofia di vita, un maestro di vita
All’Adriatico la mascotte Ciuffo, bandiere con il busto di Gabriele D’Annunzio. Non c’è partita. Dal primo all’ultimo minuto è un arrembaggio. Il Pescara verticalizza velocemente, uno due, sovrapposizioni, pressing altissimo, costruzione dal basso. Il Sestri Levante all’angolo dal fischio d’inizio, non sfrutta gli spazi nelle ripartenze. Finisce 3 a 0: segnano Cuppone, Merola, Di Pasquale. Dagli spalti qualche insulto a Sebastiani: gli gridano di comprare qualcuno nel mercato di gennaio, Zeman non ha chiesto nessuno. È il secondo successo consecutivo del Delfino. Ai giornalisti: “Serve più attenzione, facciamo troppi errori. Costruiamo poche azioni pulite”.
La partita conferma alcune delle poche idee ma in compenso fisse dell’allenatore boemo. Uno: il risultato non è l’unica cosa che conta. Due: le squadre di Zeman non gestiscono. Anche a risultato acquisito, non respirano, non addormentano il gioco. Spettacolo assicurato, altissimo rischio di rimonte e ribaltamenti. Un flipper. Casillo: “Zdengo, ti prego, abbi pietà delle mie coronarie”. Zeman ha sempre allenato con il 4-3-3 dagli esordi a Licata, ha sempre lavorato per far provare emozioni a tifosi e appassionati. “Un difensore in più è un giocatore in meno”. Un atteggiamento che però ha compromesso molti risultati. Il gioco d’attacco come filosofia di vita, la preparazione di inizio stagione ammantata da un’aura leggendaria. “Ho sempre inseguito la bellezza”. Sulla bellezza – un cliché che negli ultimi anni ha tuttavia intossicato lo storytelling del calcio italiano – ha insistito parecchio nella sua autobiografia (Rizzoli) scritta con il giornalista Andrea Di Caro.
“Ho sempre cercato prima di tutto un posto dove poter esprimere il mio calcio, le mie idee, i miei principi e i miei valori, facendo divertire la gente. Ho avuto tutto e il suo contrario. Sono entrato in stadi da sogno, con panchine più comode del divano di casa, e in impianti con le panche in legno, due sedie in plastica ai lati e una rete di recinzione alle spalle a proteggerti dai tifosi indiavolati. […] Sono stato assunto da presidenti in doppiopetto, accolti con tutti gli onori dell’alta finanza, e da poveri diavoli di periferia, con cravatte improbabili, abituati a trovare una soluzione all’ultimo minuto. Ho allenato campioni che guadagnavano miliari e giovani a cui dovevo prestare i soldi per la benzina. Ho visto tutto. E a volte sono stato meglio nelle situazioni arrangiate che in quelle apparentemente perfette, trovando nelle prime più seguito, umanità, voglia e disponibilità che nelle seconde”.
Il mio amico Zeman
Zeman è stato adottato dall’Italia, ha allenato in tutti i luoghi e in tutti i laghi, ha portato avanti un discorso coerente sul campo e fuori, ha portato sempre entusiasmo nelle piazze dove ha lavorato, ha visto il calcio trasformarsi e stravolgersi dagli anni ’60 fino a oggi, ha fallito, ha avuto successo, ha maturato uno stile unico e riconoscibile. Zeman si è fatto dei nemici: soprattutto da quando in un’intervista a L’Espresso nell’estate del 1998 denunciò il doping, l’ombra delle farmacie nel calcio. Esplose un caso. Ha definito quegli anni “un passato che non passa”, ha lamentato torti arbitrali che lo allontanarono dalla Roma – dove avrebbe voluto restare e vincere più che altrove, e dove infatti tornò nel 2012.
Zeman è stato celebrato da Arrigo Sacchi e Pep Guardiola. Ripete di non aver mai inseguito la vittoria a ogni costo, non l’ha mai vista come “l’unica cosa che conta”. Gli zemaniani sono convinti che in altre situazioni, se fosse sceso a qualche compromesso, se non fosse stato ostacolato, sarebbe arrivato e avrebbe vinto anche ad alti livelli. Non lo sapremo mai. Lui dice che per amore della Roma non trattò con Real Madrid e Barcellona. “Aver detto la verità è costata la carriera a Zdenek Zeman”, ha scritto Le Monde. Non sapremo mai nemmeno se sia sempre rimasto davvero convinto delle sue scelte o se qualche volta si sia pentito delle sue denunce.
Zeman ha intanto costruito negli anni una mitologia per cui non esistono bacheche abbastanza grandi: gli zemaniani si ispirano a questa figura imperturbabile, un uomo di poche parole ma precise, dritte al punto, di idee solide e incorruttibili, ideologo di un calcio in direzione ostinata e contraria, sempre all’attacco, che chiede tutto e oltre alle proprie gambe sparate a mille. “Ci vuole un grande coraggio – riflette Imparato – per pensare di attaccare sempre e di non uscire mai con le ossa rotte. Zeman ce l’ha quel coraggio. È anche quello che non si riesce a essere: è il coraggio di sostenere le proprie idee fino alla fine, noi zemaniani siamo affascinati proprio da questo forse: perché in realtà non riusciamo a essere come lui, ma ci ispira”.
Zeman è per certi zemaniani quello che per il protagonista del film Il mio amico Eric di Ken Loach è Cantona. Un guru a cui affidarsi, chiedere consiglio, il mito che sprona, che ispira e orienta in un momento di merda. Francesco non crede ci potrà mai essere una squadra che lo appassionerà com’è riuscito a fare l’allenatore boemo. “A 77 anni continua a fare quello che vuole fare, potrebbe starsene a casa, fare il nonno. E invece continua ad allenare ragazzi, giovani sconosciuti. A fare spettacolo. Un privilegio che si è costruito negli anni”. Non ha più al collo la sciarpa con il faccione di Zeman: in un locale, in qualche modo, se la sono rubata – sarà sul serio introvabile. E lui ci vede dei simboli in questo fatto, ci legge qualcosa: a volte la vita va così. Può andare tutto perfettamente, può andare qualcosa di traverso. È nel come si è affrontato tutto che sta la differenza.