Il giustizialismo dilagante

Perché Matteo Di Pietro non andrà in carcere, la differenza tra la certezza della legge e quella della pena

Il ministro Nordio che bacchetta i magistrati che hanno patteggiato con lo Youtuber di Casalpalocco. La destra che prende le distanze dalle proteste per Ilaria Salis...

Editoriali - di Piero Sansonetti

2 Febbraio 2024 alle 15:30

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Incidente di Calsal Palocco: il video dello scontro della Lamborghini guidata dallo youtuber Matteo Di Pietro

Il ministro Nordio, commentando la mancata carcerazione del giovane Matteo Di Pietro (condannato per avere provocato un incidente nel quale morì un bambino di 5 anni) , ha detto che lui è per la certezza della pena. Ha criticato così in modo implicito – anzi, praticamente esplicito – i magistrati che hanno patteggiato col ragazzo una pena di 4 anni e mezzo e una soluzione per evitargli la prigione.

Si è schierato sulle stesse posizioni espresse da giornali come “Libero” e “Il Fatto Quotidiano” (quest’ultimo a firma del solito Piercamillo Davigo), cioè i capifila del giornalismo giustizialista. Il ministro Nordio, che ci hanno spacciato per garantista, sostiene in sostanza che non conta la certezza della legge, che ha permesso ai giudici di arrivare a una condanna di Di Pietro evitandogli il carcere, ma conta la certezza della pena, della punizione.

In sostanza, se capisco bene, si è pronunciato per l’abolizione di tutte le leggi garantiste varate negli anni 80 – in particolare la legge Gozzini, che fu votata da tutti i gruppi parlamentari tranne il gruppo fascista – le quali stabilivano i benefici carcerari e la duttilità della pena, in ossequio alla Costituzione che fissa il fine rieducativo e non vendicativo della condanna.

Alcuni leader politici del centrodestra – anzi: della destra – e alcuni giornali, giornalisti e opinionisti, hanno fatto notare che condannare solo a 4 anni e mezzo di prigione chi viene riconosciuto responsabile di avere “ucciso un bambino di 5 anni” è una indecenza.

È il solito. La furia “prigionierista”. La convinzione che la prigione, la punizione, l’umiliazione sia la “sola igiene del mondo”, come diceva Filippo Marinetti, poeta futurista e fascista, riferito alla guerra. La punizione e il carcere servono a separare i malvagi dai giusti, e quindi a fare funzionare le società e a esaltare l’etica. Furia, legittimissima, per carità: purché nessuno abbia l’ardire di definire queste posizioni liberali. Sono posizioni fasciste e basta.

Oltretutto chiunque abbia visto le immagini dell’incidente, costato la vita al bambino Manuel, capisce che la dinamica è assai complicata. E che probabilmente Matteo Di Pietro avrebbe potuto richiedere alcune attenuanti. Ma credo che questo interessi poco.

Nel giudicare un reato si considera l’effetto del reato, e tanto più grave è l’effetto tanto scende ogni considerazione garantista o di diritto. L’idea dilagante è che il diritto, di fronte alla morte di un bambino, possa rallentare o anche levarsi dalla scena. Conta l’emozione.

L’emozione è giustissima, è vero, ma che non ha a che fare col diritto. I magistrati che hanno dovuto giudicare Di Pietro si sono attenuti al diritto. Il ministro e i giornalisti all’emozione.
È il destino dei garantisti più numerosi. Sono quelli per i quali la parola garantista non significa niente.

È un distintivo, ma in nessun modo è legata alla difesa dei diritti dei sospettati, degli indagati, degli imputati, dei condannati. E men che meno se i sospettati fanno parte di una squadra politicamente o culturalmente lontana dalla propria.

La vicenda della Salis lo dimostra largamente. Trascinati dal “Corriere della Sera” (che forse era più ispirato dalla lotta ad Orban, sospettato di puntinismo, che da vera passione garantista…) diversi esponenti politici, sul primo momento, si sono sentiti in dovere di prendere le distanze dalle manette e dal guinzaglio. E hanno condizionato anche in qualche modo i loro giornali e le Tv.

Poi, piano piano, passata la prima ondata dello sdegno, le posizioni si sono affievolite. Salvini ha cominciato a dire che comunque ad Ilaria Salis va tolto l’insegnamento; Meloni ci ha spiegato che in tanti paesi civili si usa trascinare la gente in tribunale incatenata, e che quindi non è così così grave, eccetera eccetera.

In parte (Meloni) ha persino ragione. La gravità del caso Salis non sta tanto in quelle catene, ma nel fatto che lei stia in prigione, e per di più in condizioni indecenti. È la prigione lo scandalo, e il rischio di una pena altissima. Naturalmente a questo punto si può porre la domanda indiscreta che fa saltare tutte le indignazioni e le cheta.

Questa: ma succedono solo in Ungheria queste cose? Da noi no? Beh, avete mai visitato una prigione italiana? Vi siete mai chiesti quanti ragazzi abbiano passato mesi ed anni in prigione per aver partecipato a un corteo nel corso del quale ci sono stati scontri con la polizia? E avete sentito parlare di quella signora di 75 anni che è stata messa in cella per un anno perché aveva fatto un volantinaggio al casello autostradale? Vado oltre.

Voglio gettare lì un caso che vi scandalizzerà (vi scandalizzerà il fatto che io parli di quel caso), ma è giusto scandalizzare. Qualcuno ha levato una parola di protesta quando – pochi mesi fa – un tribunale ha condannato alcuni fascisti a otto o dieci anni di prigione per il corteo non autorizzato che si concluse con l’assalto (senza feriti) alla Cgil? E tra loro il capo di Forza Nuova, Roberto Fiore?

Credo che una parola di protesta l’ha pronunciata solo questo giornale. Dico una cosa indicibile? Non si può dire che la condanna di Fiore a otto anni è una enormità? E che è stata decisa senza che nemmeno il tribunale si degnasse di scoprire chi fosse quel personaggio delle istituzioni che quel giorno aprì il portone della Cgil ai manifestanti che la invasero? Forse no, non si può dire.

2 Febbraio 2024

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