Gli effetti collaterali
Cosa è il giustizialismo e perché in Italia c’è una Tangentopoli eterna
Da una parte la magistratura che dal ‘92 in poi spazza via un’intera classe dirigente. Dall’altra Cosa nostra e le stragi. Fu allora che il sistema giudiziario assunse un enorme potere. Che dura ancora oggi
Economia - di Alberto Cisterna
Il duro scontro tra politica e magistratura ha, come noto, radici profonde che risalgono alle origini della Seconda Repubblica nata dalle ceneri di Tangentopoli e dalle macerie fumanti delle stragi di mafia.
La correlazione tra quel che è accaduto a Milano, con la stagione delle manette ai corrotti, e gli eccidi di Cosa nostra in Sicilia (1992) e sul continente (1993) non ha solo un inesplorato riscontro nella strage di via Palestro a Milano il 27 luglio 1993, ma rinviene una sorta di obiettivo punto di convergenza nella caparbia volontà del generale Mori e del colonnello De Donno di puntare l’indice sul rapporto “Mafia-Appalti” con cui i Carabinieri del Ros avevano scoperchiato la pentola ribollente dei comuni affari tra mafia e imprenditoria nazionale.
Il primo tempo della Repubblica, in effetti, si chiede in due atti. Se, al Nord, la Procura di Milano colpisce al cuore la politica corrotta dei partiti e i gangli della pubblica amministrazione venduta, la mafia al Sud infligge un colpo mortale a quegli stessi apparati politici (dall’omicidio Lima in poi) segnando la fine di un’alleanza durata oltre un secolo e privandoli della legittimazione che il potere delle cosche pur loro attribuiva nella società meridionale.
Difficile dire se la Prima Repubblica sarebbe crollata solo con Tangentopoli, i cui effetti si stava tentando di arginare a partire dalla famosa allocuzione in Parlamento di Craxi e con i tentativi di depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti.
Certo le stragi di Falcone e Borsellino, prima, e poi, quelle continentali del 1993 (le uniche certamente riferibili a Cosa nostra e, come tali, le prime consumate fuori dalla Sicilia) hanno determinato il crollo della mediazione che parti rilevanti degli apparati politici avevano assicurato con la mafia, divenuto improvvisamente un soggetto improponibile, infrequentabile, inavvicinabile.
Non a caso solo nel 1992 il delitto di associazione mafiosa si intinge anche della condotta di voto di scambio politico-mafioso a riprova di una contaminazione pericolosa che, sino ad allora, era stata trascurata se non del tutto tollerata dal potere.
Cosa abbia davvero guidato l’azione di Riina e dei suoi in quel 1992, a oggi, non è chiaro. È rimasto in un cono d’ombra il movente vero delle azioni terroristiche di Cosa nostra in quel biennio e quale sia stata la spinta che abbia portato i corleonesi a quella svolta tragica.
Certo l’esito del maxiprocesso di Palermo nel gennaio 1992 ha avuto un peso; certo la conclusione di quel processo è stata potentemente condizionata dall’uccisione, nell’agosto 1991, del giudice Scopelliti in Calabria, procuratore generale designato per la Cassazione, ma tutto questo non sembra poter giustificare la svolta stragista con tutte le sue inevitabili conseguenze.
Ovviamente Riina potrebbe aver commesso un errore di calcolo, in fondo si potrebbe dire era pur sempre un “viddano” di Corleone e non un raffinato esponente della borghesia mafiosa palermitana, mai veramente combattuta per le sue connessioni con ogni potere pubblico e ormai incistata nella società siciliana.
Può essere. Ma, così, si dovrebbe “banalizzare il male” perseguito e provocato dalla mafia in Sicilia riducendo il tutto all’isterico moto di rabbia di alcuni latitanti, che tali erano per giunta indisturbati da decenni, e al loro innato sentimento di vendetta. Umano, troppo umano, avrebbe detto il filosofo.
Nella realtà, per un sincronismo della storia che non può essere ridotto a casualità e a una bizzarria del fatto, la mafia sembra aver immediatamente colto gli effetti devastanti generati dall’azione giudiziaria sulla classe politica del paese e se, il 17 febbraio 1992 a Milano scattano le manette ai polsi di Mario Chiesa (uomo di prima fila di Craxi), il 12 marzo 1992 a Palermo viene crivellato di colpi l’onorevole Salvo Lima (uomo di prima fila di Andreotti), l’omicidio politico più eclatante in Sicilia dopo quelli di Piersanti Mattarella (1980) e di Pio Latorre (1982).
In un mese la clessidra della storia gira e scade il tempo della Prima Repubblica investita dall’azione di pulizia della magistratura milanese e sbriciolata dall’indignazione popolare per le stragi di Capaci e di via D’Amelio.
L’azione di accertamento della magistratura ha inevitabilmente perso, come dire, la propria spinta propulsiva a distanza di oltre 30 anni da quei fatti e le sporadiche notizie che emergono carsicamente di ulteriori approfondimenti investigativi non sembrano poter giungere a verità apprezzabili o a conclusioni certe.
Spetterà inevitabilmente agli storici mettere mano a tutto questo intreccio di fatti, per stabilire se esistano connessioni deboli o forti tra gli eventi e misurarne gli effetti sulla vita del paese, sulla sua stessa immagine per anni e anni definitivamente sovrapponibile a quella della celebre copertina di Der Spiegel del 25 luglio 1977 con il piatto di spaghetti con una pistola appoggiata sopra e la scritta “Urlaubsland Italien” (“Italia Paese da vacanza”).
Certo l’azione giudiziaria contro la corruzione e le stragi mafiose hanno insieme prodotto oggettivamente – e secondo traiettorie ovviamente indipendenti – un unico risultato, quello di determinare una sorta di sostituzione etnica della classe dirigente del paese soppiantata da nuovi soggetti, da nuove provenienze, da nuovi interessi. Questione cruciale per la vita della nazione e che, certo, non potrà andare esente da analisi scientifiche accurate e di più alto lignaggio che non si limitino al complottismo o alla comoda dietrologia.
Resta, comunque, il dato di fondo che, al prodursi della commistione di queste azioni indipendenti, ma simultanee, la giustizia penale ha finito per assumere un ruolo centrale nelle istituzioni e nell’organizzazione sociale e politica dell’Italia con forze politiche e epifanie culturali che tutt’oggi – a distanza di trent’anni – ancora si fronteggiano in modo antagonista e irriducibile proprio sul ruolo e sui poteri della magistratura, al punto che il ministro Nordio solo un paio di giorni or sono, nella relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, ha nuovamente stigmatizzato i “poteri immensi” che l’ordinamento ha consegnato al pubblico ministero.
La saturazione di questa ferita non è operazione né semplice né destinata al successo nel medio periodo perché muove dalla genesi di due minacce che, oggi, una parte considerevole della pubblica opinione percepisce come incombenti e gravi, la corruzione e la mafia, e che stenta a credere che la politica sia capace di fronteggiare.
Il ministro Nordio ha, a ragione, lamentato che in Italia si discuta più di una corruzione “percepita” che di una corruzione “reale” e che questo affonda la credibilità del paese nel rating internazionale sulla legalità.
E, in parte, il discorso può valere anche per le organizzazioni mafiose attenzionate che, ormai, si stanno evolvendo in raggruppamenti di narcos dediti al traffico e allo spaccio delle droghe e al riciclaggio.
Ma la questione cruciale resta quella di comprendere che queste preoccupazioni, queste percezioni si sono impresse nel codice genetico della pubblica opinione, marcandone l’essenza in modo quasi irreversibile, e che fin tanto che la classe politica del paese non si mostrerà in grado di rassicurare la nazione sulla propria moralità e sui propri intenti, difficilmente si potrà riorganizzare la giustizia secondo il modello costituzionale di un potere neutrale e terzo.