La guerra in Medioriente
“A Gaza massacro senza precedenti, Netanyahu spietato”, parla Riccardo Noury (Amnesty International)
«Dal punto di vista umanitario e dei diritti umani è qualcosa di dimensioni mai viste. La sola via d’uscita è il cessate il fuoco immediato. La denuncia del Sudafrica all’Aja va presa sul serio, Amnesty ha prove schiaccianti dei crimini di Israele»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La mattanza di Gaza. Una guerra che acquisisce sempre più i caratteri agghiaccianti di una faida barbarica. L’Unità ne discute con Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia.
Oltre 26mila morti a Gaza, tra cui diecimila bambini. Amnesty International ha documentato i peggiori massacri degli ultimi quarant’anni. Come definire quello in atto nella Striscia?
Come qualcosa di dimensioni senza precedenti, dal punto di vista umanitario e dei diritti umani. Lo hanno sottolineato alcuni giorni fa sedici Ong – tra le quali Amnesty International, Oxfam e Save the Children – aggiungendo ai due dati che ha riportato nella domanda molti altri: oltre 62.000 persone ferite, molte delle quali con danni o disabilità permanenti e tra queste oltre 1000 minorenni che hanno perso uno o più arti superiori o inferiori; un milione e 900 mila persone, oltre l’85 per cento della popolazione, costrette ad abbandonare le proprie case obbedendo agli ordini israeliani di evacuare a sud e ora intrappolate in un fazzoletto di terra ed esposte al rischio sempre più alto di epidemie; oltre mezzo milione di persone alla fame e oltre il 90 per cento della popolazione colpita da malnutrizione acuta, la più alta percentuale mai registrata; oltre il 70 per cento delle abitazioni, buona parte delle scuole e delle infrastrutture idriche e sanitarie distrutte o danneggiate, il che vuol dire accesso a fonti di acqua potabile pressoché inesistente; non una sola struttura sanitaria pienamente operativa e quelle che lo sono parzialmente, del tutto sopraffatte; oltre 300 operatori sanitari uccisi, almeno 167 operatori umanitari uccisi. Che altro? Sì, 119 giornalisti uccisi mentre facevano il loro lavoro.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rigettato qualsiasi richiesta avanzata a livello internazionale, anche da Amnesty International, per un cessate il fuoco. La guerra andrà avanti, ha affermato, fino al raggiungimento di una “vittoria assoluta”.
Sono frasi di una spietatezza inaudita, dalle quali persino i più fedeli alleati – come gli Usa – stanno piano piano prendendo le distanze. Soprattutto, le distanze le sta prendendo l’opinione pubblica israeliana: le immagini delle manifestazioni di massa, quelle dei familiari degli ostaggi che entrano in parlamento o si accampano di fronte all’abitazione di Netanyahu lo fanno capire molto bene. Quale sarà il prezzo di quella “vittoria assoluta”? Uccidere tutta la popolazione della Striscia di Gaza, come ha provocatoriamente chiesto, circa le intenzioni di Netanyahu, l’Alto commissario europeo Borrell? L’eliminazione dei capi di Hamas con la nascita, sulle macerie di Gaza, di altre generazioni di Hamas? La morte di tutti gli ostaggi israeliani?
La realtà è che non solo Amnesty International ma tante altre organizzazioni umanitarie e per i diritti umani, esperti delle Nazioni Unite e oltre 150 stati membri chiedono un immediato cessate il fuoco. È l’unica strada per una efficace risposta alla crisi umanitaria, per porre fine al bagno di sangue e per far tornare in libertà i 130 ostaggi ancora nelle mani di Hamas e degli altri gruppi armati palestinesi.
Domani (oggi per chi legge) la Corte penale internazionale dell’Aja dovrebbe pronunciarsi sulla richiesta avanzata dal Sudafrica di perseguire Israele per genocidio. A supporto della sua istanza, il Sudafrica ha presentato rapporti delle più importanti organizzazioni umanitarie, tra cui Amnesty International, e dichiarazioni da “soluzione finale” di ministri dell’attuale governo israeliano.
La denuncia del Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia dovrebbe essere presa molto sul serio. Negli atti, si citano prove raccolte da Amnesty International, che ha documentato in modo schiacciante crimini di guerra e altri crimini di diritto internazionale commessi da Israele nei suoi intensi bombardamenti contro la Striscia di Gaza: attacchi diretti contro civili e obiettivi civili, attacchi indiscriminati e altri attacchi illegali, trasferimenti forzati di civili e punizioni collettive contro la popolazione civile. Inoltre, la denuncia del Sudafrica cita le ricerche di Amnesty International, secondo la quale il sistema israeliano di dominazione e oppressione ai danni dei palestinesi costituisce apartheid. Il verdetto di merito sulla richiesta del Sudafrica avrà tempi lunghi. Ciò che ci aspettiamo ora dalla Corte internazionale di giustizia è l’ordine di misure provvisorie per cui Israele desista da atti descritti nell’articolo II della Convenzione sul genocidio, quali “uccidere membri di un gruppo protetto” e “infliggere deliberatamente a quel gruppo condizioni di vita mirate a portare alla sua totale o parziale distruzione”: sulla base di quest’ultima richiesta Israele non dovrebbe eseguire trasferimenti forzati né privare i palestinesi dell’accesso adeguato al cibo, all’acqua, all’assistenza umanitaria e alle forniture mediche.
Crimini orribili sono stati commessi il 7 ottobre da miliziani palestinesi, non solo di Hamas. Più che una guerra, quella in atto appare sempre più come una faida barbarica.
Ciò che conosciamo di quanto accaduto il 7 ottobre (c’è ancora altro su cui occorrerà indagare in modo indipendente e imparziale) basta e avanza a definire crimini di guerra quanto successo negli attacchi contro i civili israeliani da parte di Hamas e di altri gruppi armati palestinesi: uccidere civili è un crimine di guerra, prenderne altri in ostaggio è un crimine di guerra, impedire l’accesso della Croce rossa internazionale agli ostaggi è un crimine di guerra, obbligarli a fare dichiarazioni di fronte alle telecamere è un crimine di guerra. Se qualcuno ha provato emozione vedendo le riprese dei parapendii a motore che piombavano in territorio israeliano e le stragi seguite, a me quelle immagini hanno dato disgusto. Come non c’è nulla, nella risposta israeliana, che possa essere giustificato dagli orrori del 7 ottobre, non c’è nulla negli attacchi del 7 ottobre che possa essere giustificato da quanto subito dai palestinesi nei decenni precedenti.
Al centro dell’attenzione internazionale, per via degli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso, è rientrato lo Yemen. Un paese martorizzato, di cui Amnesty International si è occupata in questi anni.
Ce ne siamo occupati per molti aspetti, primo tra tutti la guerra che una coalizione guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti ha mosso contro gli Houthi nel 2015, utilizzando come noto anche bombe prodotte in uno stabilimento italiano e la cui esportazione è stata regolarmente autorizzata. Fino al 7 ottobre, quella dello Yemen era la peggiore crisi umanitaria al mondo e il fatto che quella di Gaza sia ora al primo posto non significa che lì le cose lì siano migliorate. Lo Yemen è un paese ridotto alla miseria più assoluta, dalla guerra e dall’incapacità di un gruppo armato di amministrarlo. Detto dell’Arabia Saudita e dei suoi crimini contro la popolazione civile yemenita, viene da chiedersi perché degli Houthi si parli solo ora e siano passati inosservati lo strangolamento del dissenso, le condanne a morte dei giornalisti, la discriminazione nei confronti delle donne. La risposta mi pare evidente: perché ora non stanno attaccando la loro popolazione, ma gli interessi commerciali dell’Occidente.
Dall’Ucraina al Medioriente. Il 2024 inizia nel peggiore dei modi. Il disordine globale si sta trasformando in quella che Papa Francesco ha definito “una guerra mondiale a pezzi”?
Dobbiamo aggiungere altri “pezzi”. Dal 2020 al 2022 in Etiopia c’è stato un sanguinoso, e pressoché ignorato, conflitto tra gruppi armati del Tigray e forze armate centrali, appoggiate da quelle dell’Eritrea: assedi, crimini di guerra, stupri di massa non si sono contati. In Europa abbiamo assistito a una guerra a puntate per il controllo del Nagorno Karabakh, vinta dall’Azerbaigian (dove peraltro, secondo la consueta cinica logica “premiale”, si terrà quest’anno la Cop29, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico) e che ha costretto alla fuga la popolazione armena del territorio riconquistato. In Myanmar, dopo il colpo di stato del febbraio 2021, sono ripresi i conflitti tra gruppi armati su base etnica e l’esercito centrale. Intere regioni degli stati periferici di Myanmar sono state coinvolte, con un tributo pesante di vittime civili: l’aviazione golpista di Myanmar, che evidentemente continua a ricevere carburante da qualche parte, ha bombardato a ripetizione campi profughi, centri abitati, persino folle che assistevano a concerti.
A cosa dobbiamo aggrapparci, cosa dobbiamo aspettare con fiducia?
Aspettare la giustizia, quella della Corte internazionale di giustizia e quella della Corte penale internazionale: le guerre non si ripetono se termina l’impunità di chi le combatte. È vero, a qualcosa dobbiamo aggrapparci. Alle parole di papa Francesco, sì. Al Sud globale che fa sentire la sua voce, anche. Alle società civili che prendono parte a manifestazioni oceaniche in tutte le principali capitali occidentali, pure. Io, personalmente, sto cercando in questi mesi terribili degli esempi positivi. E uno l’ho trovato: è un ragazzo israeliano di 18 anni, Tal Mitchnik. “Non esiste una soluzione militare al conflitto. Altri morti e altra violenza non riporteranno indietro le vite perdute il 7 ottobre. Mi rifiuto di far parte di un sistema che usa la violenza per risolvere i conflitti”, ha detto un mese fa, rifiutando di prestare servizio militare. Gli hanno dato 30 giorni di carcere. Li ha scontati, è uscito e ha ribadito le stesse cose. Tre giorni fa gliene hanno dati altri 30.