Parola al filosofo
“Da Mattarella pura retorica sul pacifismo, o per pace intende la vittoria militare del belligerante amico?”, parla Cacciari
«Parole vaghe. A meno che per pace non si intenda vittoria militare del belligerante amico. La cultura politica della sinistra? Oggi è zero. I social? I principali strumenti della disinformazione»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Se non è declinata politicamente, l’invocazione della pace, sia pure a fin di bene e con le migliori intenzioni, finisce per essere un esercizio retorico, parole al vento, soprattutto se a pronunciarle sono coloro che hanno qualche strumento in più per provare a fermare la guerra. Una riflessione, quella che Massimo Cacciari affida a l’Unità, che riguarda anche il discorso di fine anno del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Nel suo impegnato discorso di fine anno, la parola più usata dal presidente Mattarella è stata “pace”, con particolare preoccupazione per i conflitti in Palestina e Ucraina.
Se non si dice e neanche si accenna attraverso quale via si possa raggiungere almeno un cessate il fuoco, è pura retorica. I potenti, più o meno grandi, avrebbero il dovere, quando dicono che s’impegnano per una pace, di indicare anche quali sono le vie che intendono percorrere, o perlomeno spiegarci per quali motivi, secondo loro, malgrado queste ottime intenzioni di pace, non siano riusciti a cavare un ragno dal buco negli ultimi due anni, né sul fronte ucraino tantomeno su quello palestinese-israeliano, per non parlare delle altre decine e decine di conflitti che sono aperti sulla faccia della terra, in particolare nel continente africano, malgrado i “piani Mattei”. Mi pare che siamo nel campo della pura esortazione, che è sempre meglio che predicare la guerra, ma è una pratica del tutto impotente. A meno che…
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A meno che?
A meno che Mattarella, o chi per lui, non dicesse che in Ucraina la via per la pace è la seguente…Quale? Abbattere la Russia? Comunque è una strategia. Risolvere le questioni del conflitto russo-ucraino, reale, perché non credo che Mattarella sia un folle che pensa che la Russia voglia invadere l’Europa, conquistare la Polonia o altro. Crede che siano risolvibili le questioni sulle quali c’è conflitto, Donbas, Crimea, oppure crede che non siano risolvibili se non con una vittoria militare sul campo? Perché se crede che la pace sia ottenibile soltanto così, è chiaro che è una strategia che può avere una sua legittimità, ma allora è inutile predicare la pace. Se si pensa che certi contenziosi non siano risolvibili se non per via militare, allora che si abbia il coraggio e l’onestà intellettuale, chiunque sia convinto di ciò, di predicare la guerra sperando e operando perché finisca vittoriosamente. Non è che Churchill nel 1941-’42 dicesse la pace, la pace, la pace. Faceva la guerra.
E sul conflitto israelo-palestinese?
Mattarella ritiene che sia necessario non solo battere Hamas ma anche governi come quello Netanyahu, oppure no? È soltanto Hamas il problema? Sennò è inutile che parli. Capisco la sua posizione, per carità, ma sono parole al vento, nient’altro che parole al vento. D’altro canto, per tornare ai diretti protagonisti, sia all’interno di una parte che dall’altra vi sono posizioni molto diverse, anzi opposte. Il problema è che da parte dei palestinesi emerge una leadership sciagurata, quella di Hamas. Finché ci sarà una leadership o una posizione forte di Hamas all’interno del popolo palestinese, sarà un disastro, perché questa leadership mira all’impossibile, ed è quindi la peggior politica del mondo. Idem dall’altra parte, con i Netanyahu che pensano che colonizzando, moltiplicando le occupazioni di territori contro ogni risoluzione dell’Onu, giungeranno a battere i palestinesi. Potranno fare terra bruciata a Gaza, ma torneranno fuori in Libano, torneranno fuori in Siria e via elencando. Altro che Historia magistra vitae, qui le lezioni del passato, anche le più dolorose e recenti, sembrano passare in cavalleria.
Ad esempio?
È stato già dimostrato dopo la sciagurata guerra americana in Iraq. Diffonderanno un terrorismo ancora più efferato di quello che abbiamo con Hamas, questo è il punto. Il problema è che c’è un occidente diviso su quale ordine dare al mondo e, diciamo pure, un oriente altrettanto diviso. Non c’è un’egemonia. Potrebbe diventare anche un’egemonia cinese in prospettiva se noi occidentali continuiamo a comportarci da dementi.
Il disordine globale è sempre più un disordine di guerra?
Assolutamente sì. Che fosse un disordine globale era già chiaro da tempo, perché laddove il mondo è regolato soltanto da meccanismi economico-finanziari, è chiaro che quelli di per sé non sono in grado di risolvere conflitti e contraddizioni politiche, semmai li alimentano. Da tempo si profilava la globalizzazione come disordine globale. Adesso questo crescente disordine globale, sul piano dei rapporti economici, commerciali, anche all’interno degli stessi paesi industrializzati, sta diventando disordine globale politico. Sta diventando guerra. Perché quando il disordine economico-finanziario non viene in alcun modo regolato, quando le contraddizioni di ogni genere sono lasciate crescere, a un certo momento la competizione diventa guerra. Il disordine diventa guerra.
Il 2024 è anche un anno elettorale.
E questo è destinato ad aumentare e ad aggravare ulteriormente quello che stiamo dicendo.
Perché?
Perché in un anno elettorale le chiacchiere, le promesse generiche, le retoriche sono all’ordine del giorno, per natura. Tutto bene, quando sei in una campagna elettorale sotto la quale c’è sempre una traccia di discorso politico, diplomatico. Tutto male, quando sotto la retorica non c’è niente. Sotto il vestito, nulla. Mentre prima la retorica elettorale travestiva una sostanza, adesso la retorica elettorale è tutto.
Un tempo, all’ordine imperiale, la sinistra contrapponeva, sia pure con forte venature ideologiche, una vocazione internazionalista. Cosa è rimasto di questo?
Zero. Letteralmente zero. Nelle versioni internazionaliste della sinistra storica vi erano contraddizioni pazzesche. Pur tra queste contraddizioni, un tempo c’era una visione policentrica dei rapporti internazionali. Da un lato, vi era uno sforzo reale, soprattutto da parte di alcuni leader della sinistra europea, e anche americana, nell’indicare come strada fondamentale quella di una organizzazione internazionale fondata sul reciproco riconoscimento, sul compromesso politico, nel senso più forte. Dall’altro lato, però, vi era da parte di larghi settori della sinistra europea – per ragioni che derivavano da tutta la storia precedente, dalla seconda guerra mondiale, da come si era conclusa – una posizione nei confronti dell’Unione Sovietica che impediva a queste forze di gran parte della sinistra europea, di svolgere un’azione davvero credibile e proficua, nel senso della prospettiva di cui prima dicevo.
Prendi il Partito comunista italiano, che di questa sinistra europea era magna pars. …
Benissimo. Prendiamo il Pci…
Era evidente che la sua cultura politica era fondata su una idea di politica internazionale policentrica, basata sul riconoscimento reciproco dei grandi spazi, delle grandi aree imperiali. Dopodiché vi era una dipendenza oggettiva dalla posizione dell’Unione Sovietica. Di quella visione policentrica delle relazioni internazionali erano convinti tutti i leader del Pci che ho conosciuto. Diverso era il Partito comunista francese, come quello spagnolo, o portoghese. Pare di parlare di Giulio Cesare quando si parla di queste cose, ma sono cinquanta-sessanta anni fa.
C’era una visione europeista e policentrica che era l’anima fondamentale della strategia del Pci, dopodiché si ereditavano anche tutte le storie che derivavano dagli anni ’30-’40, dalla conclusione della seconda guerra mondiale. Vi era un internazionalismo debole per tutti i motivi che ho detto, ma vivaddio, c’era una visione internazionale, una strategia internazionale. E su determinate questioni, questa pesava.
Ad esempio?
Il rapporto fra Israele e i palestinesi. Pesava, eccome, su tutta la tragedia vietnamita. Si prendeva posizione. E si prendevano posizioni secondo me corrette, giuste, e non in contraddizione con quella visione di equilibrio policentrico mondiale, pur vivendo la contraddizione, che non si riusciva mai a risolvere definitivamente, dei rapporti con l’Unione Sovietica. E questo non perché fossero stalinisti. Io non ho conosciuto nessun stalinista dentro il Pci. Nessuno. Vi erano alcuni, uno di questi era un leader come Amendola, che riteneva che ci si dovesse far carico dell’eredità della seconda guerra mondiale e del fatto che l’Unione Sovietica l’avesse vinta. Adesso quelle storie lì sono totalmente concluse. E non è rimasto niente. È rimasta sempre più una retorica europeista, dietro alla quale non s’intravvede uno straccio di battaglia per la riforma delle istituzioni europee. Quale sarebbe questa battaglia. In cosa consisterebbe, dove la si vede? Dove c’è stata una posizione autonoma rispetto all’allargamento dell’Unione Europea, a quali condizioni potesse e dovesse avvenire? Dove, come? Dove c’è una posizione autonoma sulla guerra in Ucraina? Che cosa dicono rispetto al conflitto tra Stati Uniti e Cina? Siamo passati da un surplus pazzesco, nella vecchia sinistra, di discorsi internazionalisti alla loro scomparsa.
Questo è imputabile solo a un deficit di leadership o a cos’altro?
A vari fattori. Anche a un deficit culturale, storico. Ad una classe dirigente che si è creata come sappiamo, è inutile insistere sull’argomento. Una classe politica che si è creata al di fuori di ogni battaglia vera, politica, attraverso meccanismi cooptatori. Una classe politica culturalmente debolissima da tutti i punti di vista. C’è anche un elemento obiettivo. Nel senso che su queste questioni, due generazioni fa sentivi di poter contare in qualche modo. Ed era vero. Perché era una sinistra che contava, pesava, incideva, sul piano europeo, internazionale. Il nostro paese contava negli equilibri internazionali. Mentre adesso c’è la crescente consapevolezza dell’irrilevanza delle tue posizioni su questo piano. Dal percepire che qualunque cosa tu dica su queste questioni, risulti comunque irrilevante.
Lei è uno dei pochi che si presta a discutere seriamente di grandi questioni avendo spesso interlocutori dediti al battutismo e alla rissa radiotelevisiva, e per questo cercati e premiati.
Io penso che ci sia una enorme responsabilità del sistema mediatico, che privilegia l’immagine, la notizia telegrafica, la battuta, il duello da talk show, all’approfondimento sistematico di queste questioni. D’altra parte, sappiamo benissimo come il “medium è il messaggio”, non lo scopriamo oggi. È ben difficile pensare che i media attuali possano permettere, anche con la massima buona volontà dei loro autori, una effettiva discussione su questi temi. Bisogna accontentarsi di quel che passa il convento. Qualcosa può passare, qualche contenuto può essere trasmesso. Ci siamo cullati nella speranza che questi famosi social permettessero la diffusione di notizie fuori coro, con più forza del passato, una speranza che ha cullato certi democratici al momento del lancio di questi nuovi mezzi, e alla fine dobbiamo constatare che è vero esattamente l’opposto, cioè che i social sono il massimo strumento, il massimo canale di disinformazione e di chiacchiere di massa che la storia abbia mai conosciuto. E allora teniamoci aggrappati ai giornali, ai talk show televisivi, perché tutto sommato rispetto a quello che circola tra i social, siamo ad una “università di élite”, il che è tutto dire.