La cultura della violenza
La violenza muove soldi e relazioni, ma possiamo fermarla
La narrativa della punizione, della cancellazione, della vendetta è la narrativa dominante. Fino a diventare senso comune. Ma il senso comune non è qualche cosa di innato. Non è un sentire originario come si crede.
Giustizia - di Roberto Rampi
Ci sono molti fili che legano le tragedie poste all’attenzione dell’opinione pubblica in queste settimane e su cui sarebbe utile che i riflettori non si spegnessero con la solita modalità tipica del nostro mondo sovraccarico di informazioni e per questo sempre più povero di conoscenza. Il filo più importante è la violenza. La cultura della violenza.
Una violenza dilagante e sdoganata che diventa il paradigma delle relazioni con gli altri, nella dimensione quotidiana, personale, fino alle relazioni tra gli Stati. A questo paradigma va contrapposto il paradigma della nonviolenza. È essenziale. La cultura della nonviolenza. Che viene vilipesa, sbeffeggiata, fraintesa, derisa. Ma che sola può cambiare lo stato delle cose che oggi ci sopraffà.
La narrativa della punizione, della cancellazione, della vendetta è la narrativa dominante. Fino a diventare senso comune. Ma il senso comune non è qualche cosa di innato. Non è un sentire originario come si crede.
Il senso comune è il sentimento diffuso dominante che si è consolidato nel tempo, figlio di una cultura e delle sue reiterate azioni. Che conseguenze hanno questi messaggi dominanti di violenza e di vendetta? L’idea che ad azione debba corrispondere azione uguale e contraria. La logica dell’escalation. La teorizzata funzione deterrente della paura della punizione, della violenza.
La minaccia come strumento pedagogico. Punizione e paura come sostituti della fatica del convincere, del coinvolgere, dello spiegare e dell’argomentare, del conquistare a una causa, a una idea. Il mondo dei social non solo sdogana la violenza ma la alimenta con algoritmi che fanno salire di visibilità gli scontri, che tengono agganciate le persone ai soli fini del guadagno.
Perché è il nostro tempo su cui guadagnano le piattaforme. Più stiamo collegati e più aumentano le entrate pubblicitarie. Più aumenta il conflitto e più si sta collegati. E da oltre 15 anni siamo condizionati da questo lavoro organizzato da informatici neuropsichiatri di cui abbiamo però scarsa consapevolezza.
Non è causa della violenza ma è luogo della violenza in cui la violenza frutta denaro, trova casa perché interessa. A questo si aggiunge una visione dominante dell’altro come fastidio da eliminare, se non è funzionale a noi, ai nostri disegni, ai nostri progetti. Una diffusa intolleranza per la differenza e per ogni comportamento che intralcia il nostro percorso.
Il diverso, il migrante, chiunque non sia come noi, chiunque non sia noi. Questo si associa perfettamente all’ipertrofismo dell’ego, alimentato da interessi economici, per cui il consumatore singolo è autocentrato, convinto di avere bisogno e diritto di tutto e subito, è ideale, eccellente fonte di guadagno, a discapito dei legami sociali.
Ancora una volta il guadagno a discapito dei legami sociali. Anche di qui passa la reificazione dell’altro, che diventa oggetto e non soggetto della nostra relazione. E come oggetto nella nostra esclusiva disponibilità. Costretto a esserlo o condannato a non essere, a essere desiderato come oggetto o indesiderato.
Ciliegina sulla torta: una rappresentazione e uno stereotipo del maschile, un modello, costruito sulla forza virile, sulla capacità fisica e linguistica di sopraffare. A cui corrisponde la conseguente proposta di modelli per il femminile: sottomettersi in un ruolo ancillare o eguagliare il maschile diventando altrettanto violenta e sopraffattrice.
Un immaginario alimentato nella gran parte della scarsa offerta culturale, in un mondo in crisi educativa e formativa, con elementi di preoccupante analfabetismo di ritorno e dati sulla lettura, la frequentazione dei luoghi della cultura, la capacità di elaborazione di testi complessi sempre più drammatici e sempre troppo sottovalutati. Una crisi della conoscenza.
Questo quadro, questa analisi, chiede di provare a lavorare a un mondo nuovo, a un progetto culturale, politico, almeno europeo che si basi sulla promozione della cultura, del pluralismo, del rispetto, della relazione, della differenza. Del diritto alla conoscenza. E che promuova altri modelli. Che metta al centro l’altro come fine, il suo benessere e il suo benestare come indispensabile per il nostro.
Un pensiero e un movimento politico altrettanto potente di quello che liberò dalle campagne e dalle officine un’umanità condannata a essere subalterna, che vide le donne protagoniste della conquista del proprio spazio civile e politico. Una rivoluzione culturale, femminile e cooperativa, alternativa al modello dominate machista e competitivo.
Un’educazione al limite, al dubbio, alla fatica, alla sofferenza, all’incertezza, alla tenerezza, alla tristezza come valori e non come difetti da nascondere o cancellare. Ci sono gli elementi per un lavoro epocale. E le ragioni per metterlo in moto.