La manodopera straniera
I migranti ci aiutano a casa nostra, ma la destra li caccia
Il governo Meloni ciancia di un fantomatico piano Marshall per l’Africa, ma fa finta di non sapere quanto è prezioso il contributo di chi sbarca qui: gli stranieri valgono il 9% del Pil
Editoriali - di Cesare Damiano
In un singolare esperimento geo-politico, il governo Meloni ha concentrato i propri sforzi relativi all’immigrazione in una sorta di proiezione delle frontiere verso l’esterno. Verso la Tunisia prima, con il noto esito fallimentare e, nelle scorse settimane, verso l’Albania. E, insieme a questo, nell’architettura di un fantasioso “Piano Marshall” diretto ad aiutare i Paesi di emigrazione e transito “a casa loro”.
Titolo senz’altro ambizioso considerando l’epocale vastità del piano originale, annunciato nel 1947 dal segretario di Stato dell’Amministrazione Truman, George Marshall, che portò gli Stati Uniti a finanziare con 14 miliardi di dollari dell’epoca, per un periodo di circa quattro anni, un processo di ricostruzione e trasformazione dell’economia degli Stati europei distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale.
Il progetto valse a Marshall, tra numerosi riconoscimenti, il Premio Nobel per la pace. L’idea di fondo della destra di governo resta, in modo prevalente, che dall’immigrazione ci si debba difendere. Che questo inevitabile movimento di masse umane, afflitte da guerre, persecuzioni e povertà, che contraddistingue il nostro tempo, sia evitabile.
Al netto del fatto che, se l’Italia è un rilevante punto d’ingresso in Europa, molti di coloro che entrano nel territorio dell’Unione intendono, poi, dirigersi altrove. Con le difficoltà legali che vincoleranno il nostro Paese finché il Regolamento di Dublino non sarà oggetto di una effettiva riforma.
Il problema è che questo è un approccio che non vuole tenere conto della realtà e, insieme ad essa, degli interessi reali del Paese. Perché l’immigrazione rappresenta un fattore strategico per il nostro futuro. Da molto tempo, ormai, dalle imprese viene un forte e chiaro richiamo in merito alla difficoltà di trovare il personale da assumere per rispondere alle proprie necessità produttive.
Soprattutto in relazione a mansioni di basso livello nell’ampia varietà di fili che compongono il nostro tessuto produttivo. Da tempo, perciò, le imprese hanno riconosciuto la necessità di aprirsi all’assunzione di forza lavoro immigrata. E, ancor più, da far immigrare. A questa situazione si somma un altro problema strutturale estremamente grave: l’Italia soffre un calo demografico imponente.
Tutto questo significa, tra l’altro, aggravare ulteriormente la situazione anche sul piano del sistema previdenziale a ripartizione, la tenuta del quale è messa a dura prova dal fattore demografico. Già in occasione del Decreto flussi 2021 le imprese avevano posto l’esigenza di voler disporre di oltre 200mila lavoratori stranieri all’anno.
Ricorda uno studio pubblicato in ottobre dalla Fondazione Leone Moressa che “nel 2022 sono stati 338mila i permessi di soggiorno rilasciati dall’Italia, picco massimo dell’ultimo decennio. In ripresa, soprattutto, gli ingressi per lavoro, che rappresentano quasi un quinto del totale. I 67mila ingressi per lavoro del 2022 sono frutto del Decreto Flussi 2021 (Governo Draghi)”.
Risultato dell’insistenza delle imprese e della reale e preoccupante situazione dei conti pubblici, sarà l’aumento di nuovi ingressi per motivi di lavoro nei prossimi anni, previsto per decreto da parte del governo in 122mila unità nel 2023 e 452 mila nel periodo 2024-2026. Un passo avanti, ma non sufficiente.
Perché restano alcuni problemi politici con i quali l’attuale maggioranza sembra strutturalmente incapace di rapportarsi, come se affrontarli potesse farne collassare l’identità. Principale tra questi è la vecchia e consunta legge “Bossi-Fini”. Secondo la quale in Italia è permesso l’ingresso di lavoratori stranieri oggetto di un’offerta di lavoro da parte di un’impresa. Insomma, un’assunzione a “chiamata diretta” dall’estero che appare molto lontana dalle possibilità e dalle necessità dei datori di lavoro e, soprattutto, dalla realtà.
Ma tale assenza di chiarezza normativa è anche un “acceleratore” di illegalità nell’instaurazione dei rapporti di lavoro. Essa favorisce il nero, il sommerso, le varie forme di irregolarità. La mancanza di una limpida visione nello sviluppo delle policy è, insomma, uno dei più grandi problemi del nostro Paese. Il bene pubblico ne è la prima vittima.
Eppure, proprio al bene pubblico, l’immigrazione offre un contributo non irrilevante e che potrebbe essere ancor più consistente. L’analisi della Fondazione Leone Moressa offre dati molto interessanti per chiarire tale prospettiva.
Al primo gennaio di quest’anno, la popolazione residente in Italia, secondo i dati Istat, era di 58.850.717, dei quali 53.800.460 italiani e 5.050.257 stranieri. Un numero di immigrati non esorbitante che contribuisce però al saldo della popolazione per l’8,6%.
L’età media degli stranieri residenti in Italia è di 35,3 anni, contro i 46,9 degli italiani. Gli indicatori demografici spiegano bene la diversa tendenza: tra gli stranieri vi sono 11,0 nati ogni mille abitanti e 2,0 morti; tra gli italiani, 6,3 nati e 13,0 morti per gli stessi mille abitanti. Significativo anche il numero di stranieri naturalizzati italiani: 133 mila nel 2022, per un totale di 1,4 milioni negli ultimi 11 anni. E qui già si vede un fattore strategico rispetto all’inverno demografico che affligge l’Italia.
Come vanno le cose nel mercato del lavoro? Dopo la flessione dovuta alla pandemia – spiega il rapporto -, il tasso di occupazione degli stranieri (60,6%) torna a superare quello degli italiani (60,1%), pur rimanendo al di sotto dei livelli pre-Covid. Gli occupati stranieri, nel 2022, sono 2,4 milioni, attivi soprattutto nei lavori manuali: l’incidenza degli stranieri, infatti, è mediamente del 10,3% sui lavoratori totali, ma raggiunge il 28,9% tra il personale non qualificato.
I lavoratori immigrati producono 154,3 miliardi di Valore Aggiunto, dando un contributo al Pil pari al 9%. L’incidenza sul Pil aumenta sensibilmente nell’Agricoltura (15,7%), e nell’Edilizia (14,5%).
Tutto questo produce, in ultima analisi, un risultato fiscale di rilievo. Oggi, gli stranieri in Italia rappresentano 4,3 milioni di contribuenti, ossia il 10,4% del totale. Nel 2022 essi hanno dichiarato redditi per 64 miliardi di euro e versato 9,6 miliardi di Irpef.
E ciò produce un saldo positivo tra il gettito fiscale e contributivo (entrate, 29,2 miliardi) e la spesa pubblica per i servizi di welfare (uscite, 27,4 miliardi), con +1,8 miliardi di euro in attivo. “Gli immigrati – spiega la Fondazione -, prevalentemente in età lavorativa, hanno infatti un basso impatto sulle principali voci di spesa pubblica come sanità e pensioni.”
L’immigrazione è, insomma, una risorsa che si rivela decisiva per il saldo demografico asfittico del nostro Paese e, perciò, per la tenuta di un sistema di welfare sempre più boccheggiante. In merito al quale è sempre necessario tenere presente due numeri.
Nel 1970, mentre in Italia si sviluppava il sistema di welfare universale, il cosiddetto rapporto di sostegno – ossia il numero di lavoratori attivi per ogni pensionato – era di 3 a 1. Nel 2050, si prevede, allo stato dei fatti, sarà di 1 a 1. Sarebbe ora di smettere di giocare all’assedio e cominciare a rapportarsi seriamente con la realtà.