Caccia allo straniero/3
Chiamare la migrazione “emergenza” è un trucco della propaganda sovranista
Come ripete da tempo Stefano Allievi le migrazioni sono un fenomeno strutturale ormai da decenni. Ma ci si ostina a nasconderlo per foraggiare i luoghi comuni della propaganda sovranista
Editoriali - di Mario Marazziti
Cominciamo a cambiare la domanda iniziale. Non più “come affrontare l’emergenza migranti”, ma le migrazioni come fatto strutturale, epocale, come il fatto che di notte c’è il buio e di giorno c’è la luce. Le candele e gli occhiali da sole saranno sempre inadeguati, sollievo di breve periodo, folklorismo.
Per cambiare tutto sull’immigrazione, come scrive Stefano Allievi in vario modo da anni per Laterza, occorre non nascondere a noi stessi (azione costante delle classi dirigenti incapaci, gregarie o in malafede) che le migrazioni ci sono: “È un fenomeno strutturale da decenni. Ma l’estensione, la qualità e la quantità del processo sono tali da esigere una soluzione complessiva al nostro sistema di convivenza che non sottovaluti il malessere diffuso nell’opinione pubblica. Le polemiche intorno al ruolo delle Ong nei salvataggi sono l’ultimo degli esempi. Per non dire della crescente xenofobia che rischia di indebolire la coesione sociale del nostro paese. L’immigrazione irregolare, il trafficking (i suoi costi e i suoi morti), i salvataggi, i respingimenti, la gestione dei richiedenti asilo con le sue inefficienze, le forme dell’accoglienza. E ancora, i problemi legati ai rimpatri, alla cittadinanza, alle implicazioni delle diverse appartenenze religiose”, è la sintesi di quello che scriveva nel 2018 Stefano Allievi.
Che non smette di cercare di aiutare un pensiero ragionevole su questo tema: “La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro”, “5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare)”, che costa solo 3 euro. Ma sembrano troppi e mal spesi a chi vuole passare alla storia come “l’uomo del Ponte” che dovrebbe trasportare merci dalla Sicilia al mondo quando è impossibile trasformare i mono-binari tra mare e roccia, che seguono gli antichi tracciati romani delle ferrovie siciliane.
Dalla fine degli anni Ottanta mi sono addentrato in questi temi, scrivendo, ragionando, con inguaribile ottimismo. Anche in un tempo come questo. Nel 2019 Porte Aperte. Viaggio nell’Italia che non ha paura, e adesso La Grande Occasione. Viaggio nell’Europa che non ha paura, con Piemme.
Sono andato a vedere se da qualche parte c’erano ancora giacimenti di ragionevolezza e umanità, in Italia, da Trento a Scicli, la “Vigata” di Montalbano, in Europa, dalle zone minerarie di Marcinelle a Moelenbeek, la città “araba” di Bruxelles, dal Rabal di Barcellona, alla Baviera del Castello della Bella addormentata nel bosco e di Ludwig, dalla provincia di Caserta , metà slot machine e metà mele annurche e mozzarelle di bufala, a Brescia con quasi zero disoccupazione, alle periferie di Roma nei “quartieri di mezzo”.
Come Diogene che con la lanterna, di giorno, cercava “l’uomo” – oggi si direbbe “l’uomo e la donna”. E ne ho trovata, di umanità, di gente comune che fa cose straordinarie quando si mette insieme resistendo alla narrazione della paura e si mette ad accogliere, accompagnare, in maniera personale e personalizzata i profughi, le famiglie che arrivano con i “Corridoi Umanitari”, e c’è già chi li va a prendere all’aeroporto (senza viaggi in mare o nei Balcani), chi iscrive dal secondo giorno i bambini a scuola, chi aiuta per imparare la lingua e come fare la spesa, andare dal dentista, si fa aiutare quando prepara la festa del paese, tiene i bambini mentre studiano per la patente che è una grande emancipazione, garantisce per trovare un lavoro, senza un euro di aggravio di spesa per i conti dello stato.
Ho trovato anche come intere società, paesi, quartieri, società rinascono, riscoprono le proprie radici umane e umaniste, la propria storia e identità grazie a quella che viene chiamata “invasione”, in un tempo di depressione come questo: utilizzando le incredibili risorse umane, relazionali, marginalmente economiche della società civile. Basta resistere alla narrazione della paura e rimettersi insieme.
Un antidoto anche alla società frammentata, all’individualismo, alla conflittualità sociale, al fentanyl e alle droghe liquide dello stupro, per cercare senso ed emozioni e affetto dove non ci sta. E ci sono proposte di modelli praticabili, anche per politiche di ampio respiro. Ma su questo si può tornare. Ne parlo ora per comunicare che, alla fine di questo ragionamento a puntate, ci sono anche proposte praticabili e su larga scala. Ma bisogna partire dai fondamentali. E il più fondamentale di tutti è che le migrazioni sono un fatto strutturale.
Per questo gli accordi con l’Albania o con altri paesi, i respingimenti in mare, le navi da guerra e le motovedette non per salvare ma per intimidire o far morire (come nel grande naufragio in Grecia che è sparito dopo due giorni dai media europei, il più grande della storia, più di 600 morti, tutti filmati con i droni, per un giorno, tutti inabissati) sono cosmetici che coprono ferite e a volte creano infezioni. E altri fondamentali, piccole verità da cui partire.
È cosa abbastanza nota – e ignorata, quasi nascosta – che in Italia il Pil deve circa il dieci per cento al lavoro degli immigrati. Da molti anni. Che da più di un decennio il saldo attivo della popolazione, tra persone che muoiono e nuovi nati, la lieve crescita demografica, deve tutto ai bambini figli di immigrati e ai “nuovi italiani”.
Le migrazioni non sono un’emergenza, ma un fatto strutturale, che dipende pochissimo dai regolamenti e gli indurimenti, via via, paese per paese, delle modalità di ingresso. Quello che cambia, quando si riduce l’area in cui operano le operazioni Frontex o di salvataggio, è il numero delle vittime che non si sanno.
Tutte le volte che una rotta diventa più difficile semplicemente il viaggio si allunga, si allargano i portafogli dei trafficanti, aumentano quelli che muoiono prima di arrivare, con la paura, il tempo, la sofferenza. Ero a Lampedusa il 5 ottobre 2013, due giorni dopo il grande naufragio.
All’arrivo, con altri 5 cinque parlamentari siamo entrati nell’hangar blu dove ricomponevano i corpi raccolti dal mare: i sacchi di plastica nera, le bare in preparazione, quattro erano piccole bare bianche, la polizia scientifica, l’odore di disinfettante, i corpi alcuni coperti alla meglio, un dettaglio che fuoriusciva e parlare di bellezza e di vita che c’era stata, le unghie dei piedi dipinte, un braccialetto.
Parlando poi nel campo con i sopravvissuti abbiamo capito che in fondo al mare ce n’erano altri 150, perché erano arrivati all’imbarco con 32 pulmini, e bastava fare la moltiplicazione. Erano partiti due anni prima dall’Eritrea, poi Khartoum, lavoro da semi-schiavi, poi il deserto libico, trafficanti (quelli onesti erano di fatto solo costosi agenti di viaggio, i disonesti li vendevano ad altri), poi nascosti e semi-schiavi ancora in Libia, fino all’ultimo viaggio.
Chi affronta tutto quello non si ferma per le difficoltà di ingresso, come non si ferma l’acqua. E non è un fatto emergenziale, crescente dalle “primavere arabe” in poi. I profughi forzati nel mondo sono 114 milioni, è la cifra di ieri mattina. Già prima del ritorno dei talebani gli afghani nel mondo, profughi, erano 2,6 milioni, fuggiti anche nei venti anni della “democrazia americana” e prima: 1,4 milioni in Pakistan e 780.000 in Iran, il resto, pochi, in Europa. Si fermano quasi tutti in Africa e nei paesi vicini a quello che lasciano.
Rispetto ai residenti in Europa i profughi sono lo 0,6 per cento. In Libano ci sono 4,3 milioni di libanesi e gli abitanti sono 6,8 milioni (dati Banca Mondiale), 1 su 3 in Libano è un siriano o un palestinese. In Italia sono meno di uno ogni cento abitanti. Invasione?
Anche quest’anno gli arrivi, pure aumentati, sono al livello del 2013-2015, quando l’Italia ha mostrato all’Europa che la gente si poteva salvare in mare anche con le navi militari: l’operazione Mare Nostrum: sono persone, in quantità del tutto assorbibile. E sono pochissimi rispetto al numero dei profughi forzati nel mondo, e ai migranti in generale, di cui l’80-85 per cento, ad esempio dall’Africa non intendono e non voglio venire in Europa, e in Africa rimangono.
I profughi forzati nel mondo sono in continua crescita. 50 milioni venti anni fa. 60 milioni nel 2014, al tempo della prima crisi ucraina. 84 milioni fino a febbraio 2022, prima della guerra in Ucraina. A maggio erano già 90 milioni. Oggi sono 114 milioni. È un fatto epocale. Le pandemie, il cambiamento climatico e il riscaldamento globale, il rischio nucleare non si combattono su base sovranista, nazionale, alzando muri.
Ma si fa come fanno i bambini piccoli che quando si coprono gli occhi pensano di diventare invisibili e che nessuno possa più vederli. Ma sono solo loro a non vedere. È un gioco bellissimo. Ma bisogna crescere, la vita non è un gioco, le vite degli italiani e degli immigrati non sono un gioco, chi ha responsabilità di governo non può giocare a nascondino. Diventa colpevole. Insistere diventa criminale.
Occorrono politiche. Immediate, di medio e di lungo periodo. Senza nascondersi dietro a un dito o dando fumo alle opinioni pubbliche, spostando continuamente l’attenzione (vedi la “madre di tutte le riforme”, quando per un sistema più efficiente basterebbe rendere più snelle le procedure parlamentari, invece del raddoppio di emendamenti tra Commissioni e Aula, raddoppiato un’altra volta tra Camera e Senato: si aumenterebbe così, invece di diminuire e umiliare la centralità del Parlamento, tanto per fare un esempio).
Di queste, vorrei parlarne nei prossimi giorni. Sarebbe sufficiente, per ora, accordarsi sul fatto che le migrazioni non sono un fatto emergenziale ma, mi ripeto come a scuola, strutturale.
(fine della terza puntata – continua)