Le motivazioni

La trattativa tra Stato e Mafia non è mai esistita, perché Mori e De Donno sono stati assolti in Cassazione

Non ci sono più scuse per una Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier per il quale Borsellino si era scontrato con i colleghi della Procura di Palermo e che, secondo l’ex comandante del Ros “avrebbe potuto cambiare l’Italia”

Giustizia - di Paolo Comi

14 Novembre 2023 alle 15:00 - Ultimo agg. 14 Novembre 2023 alle 17:27

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L’ex direttore Sisde Mario Mori
L’ex direttore Sisde Mario Mori

Non ci sono più scuse a questo punto per una Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier “Mafia e appalti”, come richiesto in questi mesi dal generale dei carabinieri Mario Mori, all’epoca comandante del Ros che aveva lavorato a quell’indagine per la quale Paolo Borsellino si era scontrato duramente con i colleghi in Procura a Palermo.

“Avrebbe potuto cambiare l’Italia”, ha commentato l’altro giorno Mori dopo il deposito delle motivazioni con cui la Cassazione ha definitivamente messo una pietra tombale sulla Trattativa Stato-mafia.

Fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria di merito, deve, tuttavia, rivelarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”, scrive il collegio di piazza Cavour, presidente Giorgio Fidelbo, che ha confermato, ma per “non aver commesso il fatto”, l’assoluzione in appello di Mori e del capitano Giuseppe De Donno dopo la condanna in primo grado.

Nessuna ‘Trattativa’, dunque, ma un vero depistaggio durato 30 anni sulla stragi di mafia, ad iniziare proprio da quella dove perse la vita Borsellino e gli agenti della sua scorta. Ma veniamo ai fatti. Secondo la tesi della Procura di Palermo, amplificata per anni dal Fatto Quotidiano, i carabinieri del Ros attraverso l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino avevano veicolato la minaccia di Cosa nostra al governo.

Per la Cassazione, invece, l’iniziativa dei carabinieri non era volta a spingere la mafia a minacciare il governo, bensì mirava al perseguimento dell’obiettivo opposto di porre fine alla stagione stragista. Nel corso della loro azione, Mori e De Donno miravano simultaneamente alla “contestuale decapitazione dell’ala stragista o militarista” attraverso la cattura dei suoi esponenti, come dimostrato dall’arresto di Totò Riina avvenuto il 15 gennaio 1993.

Per i giudici, però, dalla motivazione della sentenza d’appello emerge una contraddizione logica insanabile tra l’elemento soggettivo (ovvero l’intenzione) che animava gli ufficiali del Ros nella loro interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una valenza agevolatrice oggettiva della minaccia risultante dalla loro condotta.

La Cassazione sottolinea infatti che anche se l’apertura di un dialogo con i vertici di Cosa nostra, come evidenziato dalla sentenza impugnata dalla Procura generale di Palermo, è stata molto più di una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare il concorso nel reato di minaccia a corpo politico dello Stato oggetto di contestazione.

La Procura di Palermo, in particolare, per dimostrare l’avvenuta minaccia al corpo politico dello Stato aveva messo sul piatto la mancata proroga del ‘carcere duro’ a circa 300 detenuti, di cui solo un piccolissima percentuale legati a Cosa nostra, su iniziativa del ministro della Giustizia dell’epoca Giovanni Conso. La Cassazione specifica chiaramente che non è stata raggiunta la prova “oltre ogni ragionevole dubbio” che la minaccia mafiosa sia stata “veicolata” da Mori a Francesco Di Maggio, in quel periodo vice capo del Dap, e da egli riferita a Conso.

Dichiarata poi la prescrizione, essendo stato riqualificato il reato di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo, per Leoluca Bagarella, condannato in appello a 27 anni e per il medico Antonino Cinà, vicino a Riina, al quale furono inflitti 12 anni di reclusione.

“La minaccia prospettata dall’organizzazione mafiosa, del resto, nel momento in cui venne esternata a Mori e a De Donno, in ragione del proprio contenuto, della sua provenienza e, segnatamente, degli omicidi e delle stragi compiute da “Cosa nostra” in quel periodo, aveva obiettivamente un’attitudine ad intimorire e a turbare l’attività del Governo, a prescindere dal fatto che non si abbia l’ulteriore dimostrazione che sia stata poi concretamente trasmessa e pervenuta a conoscenza del destinatario finale”, puntualizza quindi la Cassazione riguardo il dialogo avviato con Ciancimino, ricordando che non aveva lo scopo di veicolare alcuna minaccia né di scendere a patti con la mafia.

Un concetto sempre sostenuto da Mori in questi anni e che aveva espresso anche in Procura a Palermo dopo l’uscita di scena del procuratore Pietro Giammanco, colui che la mattina del 19 luglio 1992 chiamerà al telefono Borsellino per dirgli che avrebbe dovuto indagare sul dossier mafia appalti. Borsellino, purtroppo, morirà a via d’Amelio nel pomeriggio senza aver saputo che quel dossier era stato già archiviato.

14 Novembre 2023

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