La risposta all'ex procuratore
Italia in adorazione di un messia chiamato “reato”
Come strumento di repressione esercita un grande fascino sulla nostra società: vorremmo che tutto ciò che non ci piace fosse reso “reato penale”. Coniarne di nuovi quindi è un merito, guai invece se si prova a eliminarne qualcuno. Vedi il caso dell’abuso d’ufficio...
Giustizia - di Francesco Petrelli
L’illecito penale, quello che noi chiamiamo “reato”, esercita un fascino indiscutibile nella nostra società. Non la condotta criminale che lo contraddistingue, ovviamente, ma il reato come prodotto ideologico, come strumento di intimidazione e di repressione. Non riusciamo più a farne a meno nella discussione pubblica. E’ divenuto l’unico discrimine fra il bene e il male, fra il buono e il cattivo, fra l’etico e l’immorale. E come tale il reato è divenuto l’unico strumento di conoscenza e di costruzione della realtà.
Tanto l’idea stessa di reato ci seduce, che ne abbiamo tratto una iperbole linguistica che è quella del “reato penale”, tecnicamente impropria ma straordinariamente efficace, a plastica testimonianza di questa nostra fascinazione. Vorremmo che ogni cosa che non ci piace venisse trasformata in un “reato penale”, che tutto lo spazio a disposizione delle cose spiacevoli venisse colmato dalla previsione di altrettanti “reati penali”, fiduciosi della esclusiva capacità di questo strumento di combattere il male attorno a noi.
Appartiene dunque alla virtù politica coniare nuovi reati mentre è divenuta oggetto di vituperio l’iniziativa di chi volesse eliminarne qualcuno. E’ ciò che sta accadendo con il reato di abuso di ufficio, la cui proposta di abrogazione, all’attenzione della Commissione Giustizia del Senato, è stata fatta di recente oggetto di un ulteriore poderoso attacco da parte del dott. Scarpinato. Occorre rilevare come il dato statistico delle condanne per abuso d’ufficio da lui evocato in un arco di tempo ultraventennale appare davvero risibile se rapportato all’intero territorio nazionale ed al numero di atti posti in essere quotidianamente dalle amministrazioni pubbliche, ed in particolare rappresentativo della radicale inefficienza dello strumento penale costituito dal reato di abuso d’ufficio, se solo si tenga conto del numero dei procedimenti attivati che si risolvono in archiviazioni ed assoluzioni con uno spreco straordinario di risorse pubbliche, da un lato, e di sacrificio dell’immagine pubblica e della carriera di innumerevoli amministratori, spesso travolti da presunti scandali, costretti alle dimissioni dall’onda mediatico-giudiziaria provocata magari da esposti presentati dall’avversario politico di turno.
Se questo è il Paese che ci piace, l’abuso d’ufficio è lo strumento ideale per incrementare processi inutili, per insufflare il fenomeno strumentale della giustizia mediatica, per alimentare una visone eticizzante dello strumento penale, ed il progressivo abbandono di una visione liberale, laica e pragmatica del diritto penale. Il nostro ordinamento possiede già tutti gli strumenti per colpire le più gravi condotte abusive, ma si resta feticisticamente arroccati sulla difesa di questo reato residuale e di difficile perimetrazione.
Vi sono paesi, non propriamente del terzo mondo, come la Germania, il cui ordinamento non conosce affatto il reato di abuso d’ufficio, cui suppliscono strumenti ordinari quali un efficiente sistema disciplinare nei confronti dei funzionari infedeli, ovvero una efficiente giustizia amministrativa capace di neutralizzare rapidamente l’atto illegittimo, ponendo con sollecitudine la società al riparo dai suoi effetti dannosi.
A noi piace perpetrare invece questa visione persecutoria nella quale la repressione penale appare l’unico strumento palingenetico capace di operare un ruolo salvifico, additando alla pubblica opinione i reprobi, smascherandoli in auto da fé di inquisitoria memoria. Ostinatamente recalcitranti ad ogni modernizzazione e razionalizzazione dei nostri apparati amministrativi, restiamo innamorati di un sistema retorico e simbolico che idealizzi ipertroficamente lo strumento penale, sotto la cui azione ovviamente in concreto nulla cambia.
Piace consegnare la cultura del Paese alla egemonia di pubblici ministeri, gelosi di questa visione manichea della società. Piace l’idealizzazione del reato e del processo come unici rimedi al male, mentre sotto questa velleitaria illusione fatta di moltiplicazione compulsiva delle pene e degli illeciti, il disordine sociale si perpetua, la disorganizzazione prolifera, gli effetti del malaffare si stratificano, la stessa società civile, ipocritamente si deresponsabilizza da ogni forma di autonomo controllo sociale, incantata dal ruolo messianico dei suoi promessi salvatori. Non se ne abbia a male il dott. Scarpinato, che ha strenuamente difeso in Commissione il reato di abuso d’ufficio, ma credo che sia invero il perpetrarsi di questa condizione l’unico “colpo devastante alla credibilità di uno Stato e ai diritti dei cittadini”.
*Presidente dell’Unione camere penali italiane